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Zangoli, il Re del tornio tutto casa e bottega

Remigio-e-moglie
È una vera impresa vederlo fuori dal suo laboratorio, a Villa Verucchio, dove sforna le sue terracotte e argille per dieci, anche undici ore al giorno. Sempre a disposizione dei clienti. “E il sabato e domenica mi dedico al mio orto” ci confessa. Un po’ di influenza, papà, professione contadino, è riuscito comunque a trasmettergliela, anche se il verde resta per lui un hobby. Ancora più difficile è trovarlo sul web come avviene, invece, per tanti artigiani che, pure, si sono per forza dovuti adeguare alle nuove tecnologie. Di Remigio Zangoli, 65 anni, e del suo “quartier generale”, in via Togliatti, a due passi da colossi come Scm e Fimar, nemmeno l’ombra sui social. Sui siti istituzionali (da Verucchio Turismo a quello di Riviera Rimini) lo citano tra i produttori artigiani che vale la pena visitare, anche per i turisti a caccia di tipicità, ma quando glielo diciamo sorride: “Non lo sapevo, sa a me non interessa. Non sono molto portato per queste cose!”. Parola di un torniante di pura razza (perché lavorare solo ed esclusivamente con il tornio è una pratica in via di estinzione ai tempi dello stampo).
Arriviamo davanti al suo laboratorio, quasi nascosto, in un assolato pomeriggio. Intuiamo di essere nel posto esatto giusto per il nome della via e per un pannello colorato in ceramica. No, non deve c’entrare nulla con l’officina di riparazioni collocata proprio di fianco, nello stesso stabile. Entriamo. Remigio è in fondo, sta controllando una serie di tazzine e piattini appena sfornati. Dall’altro lato del laboratorio, un’unica grande stanza che raccoglie, oltre al forno e al tornio, miriadi di scaffali con i prodotti semilavorati e quelli finiti, pronti per raggiungere i vari negozi che qui si riforniscono, la figlia Francesca sta apportando alcune decorazioni a delle ceramiche. Dopo qualche minuto entra anche la moglie Elida, “jolly” tuttofare (nella foto piccola con il marito). Ci porge un depliant del Festival degli Artisti in piazza di Pennabilli. “Ci sarete anche voi?” chiedo incuriosita. “No, ci siamo stati in passato ma Remigio non sopporta la confusione”, afferma la signora.

“Casa e bottega” verrebbe da dire. Ma come è nato tutto?
“Dopo la terza media, mi sono iscritto ad un corso di ceramica al Centro Zavatta di Rimini, mi piaceva e ho tirato avanti. Ho fatto prima bottega e poi ho iniziato a lavorare per conto mio”.

In famiglia c’era già del talento al tornio?
“No no, mio babbo faceva il contadino (ride), anzi si meravigliò quando gli dissi che volevo fare il ceramista. Un lavoro completamente diverso dal suo, la cultura della ceramica non c’era nella mia famiglia, e neppure all’esterno”.

È sempre stato qui a Verucchio?
“No, io sono di Corpolò, sono qui a Villa dal ’90”.

Chi ha creduto di più in lei?
“Diciamo che nessuno era contrario alla mia passione, piuttosto dubitavano. Dicevano: «Mah stiamo a vedere!» (ride ancora). Fuori dalla famiglia venivo anche deriso. Mi dicevano tutti che era un lavoro strano”.

E poi?
“Negli anni ’80 ho aperto il mio laboratorio a Corpolò. Da solo. Mio padre mi aiutava portandomi l’argilla. Mi faceva le palle di argilla, e io le lavoravo”.

Allora poi si ricredette…
“Eh già!”.

I suoi primi clienti?
“Altri ceramisti. Io prima facevo il semilavorato e loro lo compravano da me per poi decorarlo. Dagli anni ’90 il lavoro ha cominciato a calare. A Rimini hanno chiuso quasi tutti per la concorrenza delle grandi industrie. Adesso ho un lavoro di nicchia, e sono contento”.

Dicono che il suo è uno dei laboratori più grandi in zona.
“Sì, poi ho sempre collaborato con tutti, forse un po’ è stato anche questo. Molti tengono il lavoro come un segreto, hanno paura di far entrare la gente in laboratorio perché poi potrebbero vedere certi segreti. È vero che ci sono delle cose che non hai piacere che veda qualcun altro. Ma io non ho mai avuto questi problemi, anzi qui vengono tanti ceramisti. Vengono a cuocere qui nel mio forno”.

Perché proprio da lei?
“Il mio forno è più grande. Sono due metri cubi, quando di solito i forni sono sui 40-50 centimetri cubi, a esagerare”.

Per avere un’idea quanti pezzi ci stanno?
Te voja, qui (e indica il forno), possono starci anche 1000 – 1500 pezzi. Di un bicchiere ce ne stanno 1400, diciamo”.

Lei ha lavorato sempre e solo al tornio. Per scelta o per caso?
“Più che una scelta, ci vogliono anni per imparare. Non è come quando ti metti a decorare e, se sei portato, impari in fretta. Al tornio ci vogliono almeno una decina di anni, altrimenti poi fai fatica a fare una cosa diversa dall’altra. Ci vuole molta esperienza. I prodotti vengono sempre fatti uno alla volta, i pezzi sono tutti simili ma non uguali. C’è solamente una ruota che gira e si fa tutto con la mano”.

Dica la verità: avrebbe voluto fare anche qualcos’altro?
“No. Certo, da una parte mi rimane sempre un po’ di curiosità nell’immaginare cosa avrei potuto fare se non avessi preso questa strada.
Forse il contadino. Ho l’orto e mi piace molto”.

Cosa coltiva?
“Adesso pomodori, melanzane, peperoni, ciliegie…  È il lavoro del sabato pomeriggio e della domenica mattina”.

Qui in laboratorio quanto sta?
“Dalle dieci alle undici ore, dal lunedì al venerdì. Non si guarda agli orari. Ma il lavoro non mi pesa”.

Cosa le piace di più?
“Il tornio sicuramente. Mi stanco invece a girare per il laboratorio, sfornare, infornare, smaltare, poi trattare con la gente per carità (ride ancora)”.

Con lei ci sono sua moglie e sua figlia. Gli altri due figli maschi invece non l’hanno seguita.
“No, per fortuna. Sono tutti e due laureati in chimica e lavorano”.

Un artigiano oggi deve stare al passo con le nuove tecnologie. E lei?
“C’è mia figlia che mi dice spesso di fare un sito, ma non mi interessa. Capisco che internet è utile, sono io che sono di testa dura, è diverso! Ci capisco poco, sinceramente. Non ho neanche il telefonino. Ce l’avevo perché vado sempre in bici e così, se mi succedeva qualcosa, potevo chiamare, ma ho  preso due tesserine da 5 euro e non le ho mai usate”.

E vivere in periferia com’è?
“Un vantaggio grosso per me. Io vengo sempre a lavorare in bicicletta da Corpolò. Ci metto dieci minuti, si spostano gli altri per venire da me. Ho lavorato in passato a Cattolica, a Bellaria… La città non fa per me”.

Alessandra Leardini