Dopo circa un anno e mezzo di attesa, l’universo cinematografico dei supereroi Marvel torna a sfornare un prodotto da dare in pasto ai suoi famelici fan. Complice la pandemia, infatti, quel grande, complesso e variegato arazzo di storie che dal 2008 i Marvel Studios raccontano al cinema, si era dovuto fermare, addirittura al luglio del 2019 (con il film dell’Uomo Ragno Spiderman Far From Home). Un’attesa che si è interrotta il 15 gennaio scorso, quando sulla piattaforma di streaming Disney+ ha fatto il suo debutto Wandavision, la prima serie televisiva targata Marvel Studios e, allo stesso tempo, capitolo di inizio di quella che viene definita la Fase 4 della narrazione cominciata ormai 13 anni fa con il film Ironman.
Una Fase 4 che comincia in modo del tutto inaspettato. Wandavision, infatti, si è presentato fin dai primi momenti della campagna marketing come “il prodotto più sperimentale mai realizzato dai Marvel Studios”. E non potrebbe essere più vero: la serie, che vede Jac Schaeffer come showrunner e Matt Shakman alla regia, comincia in modo assolutamente criptico e disorientante.
Televisione che parla di televisione
Ci troviamo nella piccola e pacifica cittadina di Westview, in New Jersey, dove gli ormai famosi Avengers Wanda Maximoff e Visione (rispettivamente Elizabeth Olsen e Paul Bettany, gli interpreti ormai storici della saga Marvel al cinema, eccezionali in questo show) trascorrono la propria vita di marito e moglie in piena serenità. La particolarità, però, è che senza alcun preavviso e senza nessuna spiegazione, le vicende sono messe in scena nella struttura e nelle modalità tipiche della sitcom americana anni ’50: in bianco e nero, con le risate del pubblico e gli effetti speciali vintage. La stessa narrazione è coerente con l’estetica della messa in scena, affrontando gli stilemi più tipici degli show televisivi americani, come il racconto dell’equivoco o dell’inconveniente. In sostanza, stiamo guardando una sitcom degli anni ’50 che ha per protagonisti due Avengers. Senza alcuna spiegazione. E non solo: almeno all’inizio, ogni puntata rappresenta una diversa epoca della tv americana. A ogni episodio si passa alla decade successiva, e la messa in scena cambia adattandosi all’epoca di riferimento. E, anche in questo caso, non solo al pubblico non è fornita alcuna spiegazione, ma gli stessi personaggi sembrano non accorgersi di nulla. Un inizio che, senza alcun dubbio, intriga e invoglia a proseguire la visione.
Che succede?
È la domanda che, soprattutto dopo le due puntate di lancio, ogni spettatore è costretto a porsi. Ma è proprio in quel momento, quando il pubblico è completamente spiazzato, che qualcosa si incrina: la narrazione cambia, le risate si fermano, la messa in scena si fa più moderna. E diventa subito palese che la sitcom che stiamo guardando, in realtà, non è ciò che sembra e nasconde molto di più. Ma cosa?
Questo è il grande punto di forza di Wandavision, che prende a piene mani dal genere mistery per tenere il pubblico completamente sulle spine, spingerlo a non ignorare nessun dettaglio, cercare anche il pelo nell’uovo per capire quale sia la verità nascosta dietro il velo della sitcom. Una caccia agli indizi amplificata anche dalla modalità con cui gli episodi della serie sono stati rilasciati: uno a settimana, portando il pubblico a sbizzarrirsi per capire cosa sarebbe potuto succedere nella puntata successiva, elaborando le più articolate e fantasiose teorie in rete e sui social network.
Ed è proprio per questo che, arrivati alla conclusione, ci si rende conto di non essere davanti a un esperimento pienamente riuscito.
Le due anime di una serie schizofrenica
Arrivati nella seconda metà dello show, infatti, qualcosa si rompe. La narrazione, da complessa, articolata e in alcuni casi addirittura raffinata, comincia a diventare sempre più lineare, semplice e, a tratti, prevedibile e scontata. La scrittura, puntata dopo puntata, compie un rapido e amareggiante percorso di impigrimento, che raggiunge il proprio culmine in un finale che, per certi aspetti, risulta addirittura anti-climatico. Lasciando nello spettatore anche una spiacevole sensazione di essere stato preso in giro: come in ogni racconto giallo che si rispetti, infatti, anche Wandavision è pieno zeppo di indizi che non portano a nulla. Ed è giusto che sia così, fa parte del gioco. Il problema, però, è che questo avviene non per depistare i personaggi in scena, ma solo ed esclusivamente lo spettatore, producendo una deludente incoerenza narrativa. È un peccato capitale: la regola aurea del giallo è che non si deve mai e poi mai mentire al lettore/spettatore. Agatha Christie docet. Su lato del mistero, dunque, Wandavision è una serie che subisce un crollo vistoso, tanto da poter essere definita, nel suo insieme, come un prodotto mediocre.
Ma, per fortuna, questa è solo una delle due anime che costituiscono la serie. L’altra, forse la più importante, è strettamente legata al cuore pulsante della narrativa dei supereroi a fumetti: raccontare, attraverso i colori, l’azione, la fantascienza e un linguaggio alla portata di tutti, una storia universale. Che tocca, cioè, qualsiasi essere umano, nessuno escluso. Nel caso di Wandavision, il racconto scelto è quello dell’elaborazione del lutto. Tutto il viaggio compiuto dai protagonisti Wanda e Visione durante la serie ha lo scopo di rappresentare il difficile percorso che ognuno di noi, prima o poi, deve affrontare nella propria vita: lasciarsi alle spalle gli affetti più cari. Da questo punto di vista, Wandavision mette in scena momenti emotivi di altissima intensità, in questo davvero superiori alla media dei prodotti targati Marvel.
Superare una perdita è dura per tutti, anche se sei uno dei supereroi più potenti del mondo. In questo, Wandavision centra completamente il bersaglio.