Lo si sente dire spesso: al baseball italiano mancano idee di qualità utili per compiere determinanti salti in avanti, farsi conoscere, ed uscire dal dimenticatoio collettivo in cui è stato accantonato. Servono proposte concrete e realizzabili e anche volti nuovi da accompagnare a quelli gia presenti, per promuovere progetti nel medio e lungo termine. Uno dei profili più interessanti al riguardo sta emergendo con vigore, per personalità e capacità di proposta, e da quest’anno è anche dirigente del Rimini Baseball. Si tratta di Orlando Garbella, padre di Nicola (classe ’92, uno degli uomini di punta del roster dei Pirati) e Giovanni (classe ’96, impegnato negli USA dove gioca nei Valpo Athletics). Insomma una famiglia che ha fatto di mazza e guantone una piacevole missione, appena incrociata dal padre già ai tempi delle scuole superiori negli anni ’70.
Come nasce la sua passione per il batti e corri?
“Ad Aosta, città nella quale sono nato, non si praticava baseball. Però quando ero 17enne mi interessavano moltissimo le statistiche, e il baseball è ricco di riferimenti in tal senso. Comunque non è cominciato tutto grazie ai numeri, ma attraverso lo studio della fisica. Infatti a scuola un giorno ci assegnarono un argomento a piacere proprio in quella materia, e io raccontai cosa accadeva alla pallina una volta lanciata”.
Perché decise di lasciare l’Italia per gli Usa?
“A 20 anni dovetti rilevare l’attività di mio padre, appena deceduto. In cinque anni quintuplicai il fatturato, abbassando i prezzi, ma riducendo i margini di guadagno. Un giorno incontrai il commercialista che fu categorico: per i parametri dovevo dichiarare meno spese e pertanto venivo tassato su un guadagno non acquisito. Per me era incomprensibile. All’epoca avevo anche la qualifica di odontotecnico ma, in linea generale, non potevo accettare alcune imposizioni che regolavano quel mestiere. Allora mi ricordai che un’amica di mia nonna mi aveva invitato ad andarla a trovare in Pennsylvania, e decisi di chiamarla per farmi ospitare. Ma la sua disponibilità non c’era più, a causa della malattia del marito. Non mi sono arreso e cominciai a consultare la cartina degli Stati Uniti. Ad occhi chiusi il dito si fermò sull’Arizona, ma alla fine scelsi il territorio che poteva essermi più congeniale: San Diego”.
A quel tempo come si trovava un italiano in America?
“Sono arrivato nel 1985 e ho svolto tutti i lavori umili degli emigranti: spazzino, giardiniere, lavori manuali in generale. Ero molto veloce nello svolgere le mansioni e lavoravo parecchio. Poi insieme ad un altro italiano ho presentato un business plan per aprire un caseificio a San Francisco. Successivamente ho aperto una boutique di abiti per uomo, ho coordinato un gruppo di guide turistiche, sono stato agente immobiliare, fino ad abbracciare la mia attuale professione nel 1989, cioè commerciante di filtri per l’acqua”.
E il baseball negli States come l’ha approcciato?
“Era ed è lo sport nazionale. I miei due figli hanno cominciato grazie alla madre Mary, che ho sposato nel 1989. Li portavo all’allenamento e quando tornavano a casa continuavano a giocare con mazza e guantone. Nicola nel baseball ha sempre avuto successo. A 8 anni, a scuola, registrò 44 valide in altrettanti turni di battuta, opposto ad una macchina lancia palline: non era mai accaduto nella storia dell’istituto. E raccogliendo buoni risultati ha trascinato anche il fratello Giovanni, che ora ha ottenuto una borsa di studio molto importante alla Valparaiso University, nell’Indiana”.
Lei e Nicola ora siete in Italia, Giovanni in America. La vostra famiglia come gestisce questa separazione fisica?
“Ho sempre viaggiato moltissimo per lavoro e a oggi ho accumulato oltre tre milioni di miglia volate. Ma nei momenti importanti ci sono sempre stato. In un certo senso la distanza può anche avere effetti positivi, perché quando poi ci si ritrova si vuole semplicemente stare bene assieme”.
Come ha conosciuto l’attuale presidente del Rimini Simone Pillisio?
“Nicola e Giovanni sono tutt’ora tesserati con gli Aosta Bugs e il Direttore della squadra Maurizio Balla, mi presentò Pillisio un paio di anni fa. L’anno scorso Simone, nella partita Novara-Rimini, aveva bisogno di uno speaker allo stadio. Le norme prevedono che senza quel profilo la società incorra in sanzioni. Verificò la mia disponibilità e, nonostante non avessi mai ricoperto quel ruolo, accettai. Col tempo ci siamo confrontati riguardo numerosi aspetti e per qualche motivo deve avermi apprezzato. Quando mio figlio Nicola ha scelto di giocare per il Rimini, lo scorso anno con Zangheri ancora presidente, io partecipavo come aiuto durante gli allenamenti, portavo le palline, contribuivo ad allestire il campo. Poi è subentrato Pillisio che mi ha coinvolto a livello dirigenziale. Ora sono un dirigente e col presidente parliamo praticamente di tutto, anche di strategie extra-campo”.
Lei conosce bene l’Italia, e i suoi figli sono cresciuti negli Stati Uniti. Lo sport quanto è concepito in maniera diversa?
“Il sistema americano è migliore. I miei figli hanno sempre praticato due sport: baseball e calcio <+cors>(Nicola era un promettente portiere richiesto dal Manchester United, offerta poi declinata). Questo perché la scuola negli Usa non concepisce lo sport come un ostacolo all’apprendimento. L’istituzione scolastica sa bene che gli studenti-atleti hanno bisogno di supporto per eccellere nello studio e nello sport e, se necessario, affianca tutors ai ragazzi per aiutarli. Uno studente per giocare con la squadra della scuola deve mantenere la media scolastica alta ed eccellere dal punto di vista agonistico, altrimenti non può accedere alle borse di studio delle Università. Invece in Italia molti presidi e molti insegnanti, percepiscono l’attività fisica come un fastidio rispetto alla capacità di apprendimento dei ragazzi. Inoltre in America i ritmi sono differenti. Uno studente-atleta universitario si alza alle 5.30 e va in palestra. Alle 8 partecipa alle lezioni. Nel pomeriggio si allena sul campo e in serata studia in biblioteca. Alle 22 va a dormire e il giorno seguente ricomincia con la solita tabella di marcia. Chi cresce così accetta la durezza del gioco, della vita atletica e della disciplina di un piano di studi, crescendo con una cultura sportiva e di vita ben precisa. In Italia la preoccupazione per molti, rispetto ad un bambino o ragazzo che pratica uno sport, è sempre la stessa: “E se si fa male?”. Come se non ci si potesse far male cadendo dalla bicicletta o giocando a calcio tra amici”.
Cultura e sport quindi possono essere complementari?
“Lo sono da ogni punto di vista. Esistono esempi di università americane che vantano la proprietà di stadi di football da 100mila posti. Le loro squadre giocano e gli spettatori pagano dai 10 ai 5mila dollari a biglietto. Spesso si ospitano anche eventi esterni. Si raggiunge quasi sempre il tutto esaurito, le tv pagano per i diritti delle gare, e l’università si ritrova con dei tesori da investire. Ad esempio l’University of Alabama, vincendo il campionato di football, ha incassato 95 milioni di dollari. E dove li spende quei soldi? Oltre ad avere degli stadi e dei campi impeccabili contatta docenti di alto profilo come Premi Nobel, li paga bene, e gli affida un corso di laurea unico nel suo genere che possa generare interesse e nuove iscrizioni. Così si alimenta un circolo virtuoso potenzialmente senza fine. Negli Usa la cultura che si promuove e si trasmette nelle università è finanziata anche dagli introiti sportivi, e gli sport minori ricevono il supporto da quelli con maggior seguito”.
Il baseball italiano come può destarsi da quel torpore che ormai lo caratterizza da decenni?
“È fondamentale trovare sinergie tra MLB e baseball italiano. Non è impossibile, e alla Major occorrerebbe uno sforzo economico minimo rispetto alle proprie disponibilità. Se n’è parlato diverse volte, ma alla fine non si è mai raggiunto il risultato voluto. Un ambito internazionale con un campionato continentale (come proposto dal rugby), e sinergie concrete con MLB porterebbero un nuovo interesse. Un altro punto nevralgico riguarda il settore giovanile. Dobbiamo renderci conto che, al momento, una squadra di baseball vince titoli in Italia perché ha un merito preciso: individuare la giusta combinazione tra lanciatori di qualità e battitori efficaci in un lasso di tempo che dura una stagione. In genere non si trionfa per una programmazione pluriennale continuativa, a lungo termine. Ogni anno si vedono squadre cambiare molti giocatori, il Rimini fa parte di quelle. Così non si crea un’identità radicata nel territorio. Occorrono giocatori locali, italiani, prestando grande attenzione ai vivai e ai campionati giovanili. L’intervento della MLB anche nel settore giovanile attraverso camps, visite oltreoceano, promozione della cultura e attitudine al baseball giocato negli Usa, porterebbe una nuova visione al nostro movimento. In pratica bisogna creare occasioni di collaborazione con la Major e cambiare la cultura sportiva in generale, partendo dalle scuole. Di idee ce ne sono, ed anche esempi dai quali prendere spunto”.
Matteo Petrucci