Il prossimo 20 novembre Barbara Magalotti riparte per La Paz, Bolivia, anche se il paese si trova in un momento critico, spaccato in due, quasi sull’orlo di una guerra civile.
“Noi andiamo comunque, partiamo a giorni – racconta – Abbiamo un terreno di dieci ettari nello Yungas boliviano, in zona preamazzonica e stiamo implementando una serie di attività agricole volte all’autofinanziamento, in modo che il progetto possa sostenersi da sé. E quindi andiamo, ci metteremo il giubbotto antiproiettile”, ride…
La prendi con filosofia, chiedo.
“Non saremo spavaldi. Staremo molto attenti. Ma io ho bisogno di essere là, vicino alle persone con cui ho passato questi anni. Non vogliono che sentano che non sono andata. Io voglio essere vicino a loro e aiutarli. Non riesco a stare qui”.
Barbara non riesce a stare lontano dalla Bolivia e dal Centro de Apoyo “Alegría” nato all’interno del carcere San Pedro di La Paz (Bolivia) per i figli dei detenuti residenti insieme ai loro padri all’interno del carcere, ora divenuto Centro di sostegno per le famiglie dei detenuti, e del Progetto “Casa Solidaria” per l’accoglienza temporanea e il reinserimento socio-lavorativo di ex-detenuti.
Una storia d’amore nata per caso, nel lontano 2001.
“Quell’anno volevo fare un viaggio in India, paese che mi ha sempre affascinato. Ma poi l’attentato alle Torri Gemelle ha mandato all’aria tutti i miei programmi. Ma allo sconforto per l’accaduto è subentrata una vera depressione per la piega presa dagli eventi: la paura verso il mondo musulmano, il clima di ostilità e sospetto. Ho vissuto malissimo quei mesi, tanto che poche settimane dopo mi sono rivolto alla Papa Giovanni XXIII dicendo che sarei voluta partire per una missione. Mi sentivo in dovere di fare qualcosa. Poi però è venuto fuori che per andare in India o in Africa servivano mille vaccini, che non avevo voglia di fare. Per cui scelsi l’America Latina, un luogo che altrimenti non avrei mai preso in considerazione. Mi sono detta: va bene, sono psicologa, mi occuperò dei ragazzi di strada”.
Barbara parte nel dicembre dello stesso anno, il 2001. Rimane fino ad aprile con la APG23. Poi per caso, durante quei mesi, sono venuta in contatto con dei ragazzi che erano stati arrestati dalla polizia, e abbiamo conosciuto il cappellano delle quattro carceri di La Paz, padre Filippo Clementi, e lì si è accorta della strana realtà del carcere: lì infatti c’erano anche i bambini.
“Mi sono trovato davanti ad una situazione incredibile: i bambini e le famiglie dei carcerati vivevano lì con loro. Parliamo di 150, 180 bambini. Ho cominciato a frequentare quel mondo e a confrontarmi col cappellano, che un giorno mi ha detto: ma se io un giorno trovo i fondi per costruire una casina dentro al carcere, una stanza dei giochi, tu vieni qui a implementare il progetto di centro per i bambini?”.
Barbara è spiazzata. Non risponde subito. Ma ha già deciso, e la sera richiama padre Clementi e gli dice: sì, ci sono.
“Ha visto che ci tenevo. Io amavo e amo ancora i bambini, e alla fine di persone pazze che decidono di fare una cosa del genere non ce ne sono tante, così è nato questo progetto”.
A settembre del 2002 ritorna in Bolivia e fa un altro anno di volontariato per la APG23, ma nel contempo sviluppa un progetto suo. Tutte le mattine andava in carcere per dare vita al progetto, mentre il cappellano dava avvio al primo nucleo.
“All’inizio ero da sola a lavorare a questo progetto. C’era solo qualche volontario mandato dalla Pastoral Penitenziaria. Alla fine di quell’anno Padre Filippo ha trovato alcune persone del luogo che potevano seguire il progetto. Io, tornata in Italia, ho lavorato cercando fondi e donazioni e ho fondato l’associazione Laboratorio Solidale, e da lì ho continuato a sostenere il progetto”.
Dopo due anni senza Bolivia, dal 2003 al 2005, decide di andarci in pianta stabile. Tutti gli anni parte a novembre e rimane a La Paz sino a giugno a seguire la vita del centro, che nel frattempo è cambiato.
“Lo spazio giochi si è evoluto piano piano, ascoltando le problematiche reali e concrete che abbiamo incontrato giorno per giorno, verificando e capendo i bisogni che reclamavano una risposta. Oggi si sviluppa su tante aree: dal sostegno scolastico, alla mediazione tra scuola e detenuti, ovvero permette ai professori di entrare in carcere per parlare con i genitori detenuti, dando vita ad un processo di inclusione delle famiglie all’esterno. Poi ancora: area salute, area psicologia, area ippoterapia, area di terapia di coppia delle famiglie… Piano piano è diventato un centro di riferimento, per detenuti, le loro famiglie, e i bambini in primo luogo, che hanno potuto esperire tante attività fuori recinto”.