I ricordi di Tor di Quinto, l’incubo dei debitori, la consapevolezza dell’impresa, l’ambizione della serie B, il sogno di un villaggio dello sport. Tutto questo è Fabrizio De Meis, 42enne romano, residente a Riccione, imprenditore di successo nell’ambito delle discoteche (il Cocoricò è uno dei locali più conosciuti al mondo) e affamato di calcio. Dal gennaio del 2014 ha preso la guida della Rimini calcio, facendola risorgere dalle proprie ceneri e riportandola in LegaPro, con quattro partite d’anticipo.
Presidente, ci spieghi chi è Fabrizio De Meis.
“Una persona alla quale piacciono le sfide, che è abituata a vincere. Nel senso che nelle sfide che ho affrontato ho quasi sempre raggiunto risultati importanti, sia a livello manageriale, nelle aziende in cui ho lavorato, in Italia e all’estero, sia nello sport. A Tor di Quinto (quartiere di Roma, ndr)ho vinto campionati come allenatore e ora, anche qui a Rimini, al primo colpo sono riuscito a vincere. Sicuramente sono una persona ambiziosa, Però, penso di essere anche una persona moderata, mi piace cercare di raggiungere gli obiettivi in modo silenzioso”.
Qual è stata la molla, vista anche la difficile situazione pregressa a livello societario, che l’ha spinta a prendere in mano la Rimini calcio?
“Le molle sono state due. Una ovviamente è la passione, perché ce l’ho nel sangue, è una cosa che sento proprio mia, mi mancava molto quello che facevo a Roma, anche se era, per certi versi, più bello, perché era più scanzonato, senza tutte le pressioni, le problematiche che poi ti comporta una responsabilità come quella di essere presidente della Rimini calcio. La molla principale, però, è stata vedere la maniera nella quale era trattata la Rimini calcio, con persone che, secondo me, non rappresentavano proprio nessuno di quei valori dello sport che ho vissuto per dieci anni, in una realtà economicamente più povera, come Tor di Quinto, dove tutti facevamo attività di volontariato. Era proprio il sociale vero, applicato allo sport. E pensare, invece, che a Rimini c’erano quarantacinque giocatori professionisti, di cui venticinque bivaccavano e uscivano tutte le sere. Quella situazione lì è stata una molla, proprio come quando sei difronte ad un’ingiustizia”.
Qual è ora la situazione del bilancio societario?
“Diciamo che il bilancio è stato riportato a livelli di decenza, che non è quello che voglio io: credo che un’azienda debba essere sana e che non debba avere debiti che siano una limitazione. Oggi le due posizioni debitorie più forti, sono state dilazionate in sette anni e, quindi, è sicuramente più sostenibile”.
Passata la sbornia per la meritata promozione, ora se si guarda indietro cosa vede?
“Guardando indietro, rivivo un incubo, perché quello che ho affrontato è stata l’esperienza più brutta della mia vita. I conti che mi hanno mostrato prima di entrare in società, non erano poi quelli reali. E quindi mi sono trovato una volta fatto il passo, con una situazione catastrofica, quattro volte superiore a quella che mi avevano dipinto. Continuavano ad arrivare delle posizioni debitorie che non erano iscritte a bilancio. Ancora non riesco proprio a rendermi conto di aver fatto questo autentico miracolo: in dieci mesi abbiamo ricostruito la società, tamponato la situazione finanziaria e reimpostata in maniera sicuramente sana, costruito una squadra e un settore giovanile. La promozione è sicuramente l’impresa più grande che abbia fatto nella mia vita. Il campionato l’abbiamo stravinto, abbiamo battuto tutti i record della storia del Rimini: verrà ricordata come la stagione dei record. Poi, mangiando viene l’acquolina in bocca, perché c’è una poule scudetto, alla quale tengo particolarmente, perché giocare il prossimo anno con il Tricolore sulla maglia sarebbe un sogno”.
Quando arrivò a Rimini ci fu un po’ di scetticismo e qualche pregiudizio, ma lei ha sempre evitato le polemiche.
“L’ho vissuto con grande serenità, perché credo sia anche normale, quando le persone non ti conoscono, soprattutto venendo da una realtà come il Cocoricò. Quindi l’avevo messo in preventivo, ero convinto delle mie capacità, del progetto, dell’idea che avevo. Ero convinto che avrei fatto bene e che, poi, nel tempo sarei stato apprezzato. Devo dire la verità, non pensavo di riuscirci in un tempo così breve”.
E se ora guarda avanti, cosa vede? Le sue aspettative, il suo sogno.
“Guardando avanti, vedo l’obiettivo di cercare di dare una stabilità alla società, che ci permetta di fare un piano sportivo graduale, un programma triennale, che possa cercare di riportarci lì dove il Rimini merita: in serie B. L’obiettivo è ambizioso. Non quest’anno, perché sarebbe da presuntuosi e, soprattutto, da stupidi, ma magari l’anno successivo ci si potrebbe presentare ai nastri di partenza con l’obiettivo di una promozione. Mi piacerebbe, poi, avere un villaggio dello sport: una struttura con otto/dieci campi, con i pulcini dello scuola calcio che si allenano accanto a Ricchiuti e compagni… Un vero e proprio villaggio, dove ci siano 700/800 tesserati del Rimini che tutti i giorni vivono il calcio al cento per cento”.
Mister Cari rimane in pole position anche per la prossima stagione?
“In settimana m’incontrerò con il direttore generale e il direttore sportivo, che hanno fatto un grandissimo lavoro di ricostruzione, uno a livello societario e l’altro a livello sportivo, sperando che si possa andare avanti ancora con loro. Poi, nello specifico, l’allenatore è una scelta che va fatta in base al progetto, all’idea del direttore sportivo”.
L’ha sorpresa il cammino fatto dalla sua squadra o sapeva di avere in mano una Ferrari?
“Ai nastri di partenza, sicuramente, eravamo convinti di avere una squadra molto forte. Noi siamo partiti con degli obiettivi di mercato e li abbiamo centrati tutti. Poi, però, c’è stata una partenza drammatica. Secondo me questo era in parte dovuto a una preparazione atletica molto impegnativa e, poi, anche al cambio dell’allenatore. C’è stato un momento in cui ho avuto paura che avessimo sopravvalutato la squadra, poi, con grande compattezza siamo ripartiti e abbiamo sempre dominato”.
Roberto Baietti