Fino alla sua recente, illegale occupazione, nessuno a Rimini sapeva dell’esistenza del “villino Ricci”. E nessuno (o ben pochi, credo) sanno nemmeno ora di cosa si tratta. Ecco qualche notizia.
Si tratta di una modesta villetta di due piani costruita alla fine degli anni trenta in via Ceccarelli, alle spalle del castello malatestiano, ereditata dal Comune di Rimini dalla signora Teresa Ricci Pazzaglia, morta centenaria il 22 novembre del 2006.
Teresa Ricci Pazzaglia è stata una scrittrice e poetessa. Era figlia di due maestri che hanno abitato e insegnato per tutta la vita a Villalta di Cesenatico, lasciando un ottimo ricordo, tanto che nel 1974 a loro è stato intitolato il nuovo edificio scolastico di quella frazione (dove “con assidua presenza donarono contributo di consiglio, sapienza, esperienza alla popolazione tutta”, come ricorda la lapide commemorativa. Anche Teresa si era diplomata maestra (nel 1924), ma si era limitata ad aiutare i genitori nell’insegnamento. Quando questi andarono in pensione si trasferirono a Rimini dove costruirono la villetta di cui sopra, in cui ospitarono anche la figlia e il genero, Luigi Pazzaglia di Santarcangelo. Teresa era la vera intellettuale della famiglia; era entrata nel giro dei “piadaioli” di Aldo Spallicci, partecipava ai loro “Trebbi”, seguiva le attività culturali di Maria Massani, e scriveva prose e poesie, mentre si occupava dell’assistenza dei vecchi genitori e del marito (ne ha tracciato un bel profilo Bruno Ballerin, in “Romagna arte e storia” n. 81, 2007). Aveva il culto del dovere e delle memorie famigliari; e in questo culto rientrava anche il vecchio ospedale di Rimini, in cui i suoi congiunti erano morti.
Fu appunto durante l’allestimento del Museo nell’ex Ospedale, intorno al 1990, che volle conoscermi.
Era alta e magrissima e vestiva di nero all’antica; aveva più di ottant’anni e ancora un piglio energico; apprezzava i restauri al vecchio edificio condotti dal direttore Pier Luigi Foschi, e la disposizione delle opere d’arte e di storia nei locali restaurati; scrisse in merito anche una poesia che consegnò al direttore. Allora si stava ponendo il problema della propria eredità, che la preoccupava, non avendo discendenti diretti. Le consigliai di mettere al sicuro e prima possibile tutti i suoi scritti depositandoli in biblioteca, cosa che fece (e ne volle controllare puntigliosamente l’inventariazione). Mi “costrinse” ad andarla a trovare a casa sua, al primo piano della sua villetta, dove era assistita da alcune badanti straniere e da alcuni medici che le erano diventati amici, per farmi vedere i suoi ricordi: cuscini ricamati, tende di pizzo, centrini, vecchie fotografie, la poltrona di paglia del padre accanto ad una vecchia stufa, tutte cose modeste che recavano appuntati dei bigliettini perché non se ne smarrisse il ricordo degli autori, della funzione, degli anni in cui erano stati fatti. Il villino non era messo bene, anzi era in più punti cadente; inoltre era privo di riscaldamento, ed aveva il piano terreno vuoto: “troppo umido per essere abitato”, diceva; ma aveva, ed ha, un bello spazio libero sul retro, acquisito grazie alla chiusura di un fosso, senz’altro uno dei tanti diverticoli del Marecchia destinato in origine a fornire acqua a qualche opificio del borgo.
Alcuni mesi dopo la morte di Teresa Ricci venni informato che ero stato nominato da lei stessa “esecutore testamentario”: la notizia inaspettata mi gettò nel panico più totale, perché sono assolutamente incapace di affrontare anche i più banali problemi di carattere pratico e burocratico. Superando i rimorsi, rifiutai la curatela, ma mi venne consegnata una copia del testamento: con questo nominava erede universale il Municipio di Rimini, a cui andava la sua casa, “con l’onere – scriveva – di destinarla al sostegno ed allo sviluppo degli impegni culturali, artistici e benefici della Municipalità in memoria mia, dei miei genitori e di mio marito. A tale effetto una porzione dell’immobile al piano superiore dovrà essere destinata a conservare i cimeli e i manufatti meritevoli di essere riordinati e conservati”c’erano anche altri obblighi, tra i quali la manutenzione della sua cappella funeraria nel cimitero di Santarcangelo). Il Comune ha accettato il dono, ma non ha fatto niente per restaurare lo stabile di via Ceccarelli, che i suoi tecnici hanno frettolosamente giudicato “inagibile” e sbarrato; non so cosa abbia fatto dei mobili e delle suppellettili che conteneva, che avrebbero dovuto essere inventariati e almeno in parte conservati secondo la clausola testamentaria.
Per quanto riguarda il villino forse il Comune aspetta che con il tempo crolli “naturalmente”, così potrà sfruttare l’area per costruire un qualche palazzotto moderno ben più grande dell’attuale, e forse più adatto al richiesto “sostegno e sviluppo degli impegni culturali artistici e benefici della Municipalità”, ma alla faccia dei ricordi familiari e della memoria della testatrice. Quando ho saputo dell’ “occupazione” da parte di un centro sociale ho pensato che almeno ad un impegno “benefico”, per quanto illegale e temporaneo, serviva. Ma soprattutto ho pensato e ancora penso che onestamente il Comune avrebbe dovuto rifiutare l’eredità se la riteneva troppo onerosa. Sono passati dieci anni dalla donazione: l’unico intervento ha riguardato la chiusura di porte e finestre. Bisognerà avere pazienza ancora per altri dieci anni (ma forse meno) per avere via libera e sbarazzarsi della memoria di un atto generoso quanto, a mio modo di vedere, immeritato.
Pier Giorgio Pasini