Non scappano solo dalla povertà ma dall’impossibilità di avere un futuro dignitoso. Nelle storie dei profughi accolti nel territorio riminese, “c’è sempre qualcosa di traumatico in più: stermini dei familiari, episodi di persecuzione, tortura. Ogni persona accolta rimanda un senso profondo di solitudine. A volte sono costrette a lasciare moglie e figli”.
A parlare è Erica Lanzoni, responsabile dell’Area Emergenze della coop. “Il Millepiedi”, altra realtà cattolica insieme a Caritas diocesana, Ass. Comunità Papa Giovanni XXIII (che abbiamo incontrato nelle precedenti puntate) ad essere coinvolta nella gestione dei profughi nel riminese. La “Millepiedi” si occupa nello specifico dei migranti inseriti nel progetto SPRAR ossia dei beneficiari di protezione internazionale. La cooperativa ha iniziato tre anni fa con quattro accolti, tutti ragazzi con meno di 25 anni, provenienti da Afghanistan, Gambia, Ghana e Iraq.
Nel 2014, in seguito all’ampliamento del progetto SPRAR e all’aumento delle richieste di protezione, la cooperativa ha ampliato il servizio insieme alla Provincia di Rimini e ai Comuni di Poggio Torriana, Villa Verucchio e Santarcangelo. Oggi, ognuno dei tre appartamenti affittati da privati (uno in ogni comune aderente al progetto) ospita quattro persone.
Da dove provengono i vostri 12 ospiti?
“Da Afghanistan, Gambia, Mali e Somalia, sono tutti maschi fra i 19 e i 45 anni. Sono ragazzi e uomini soli che scappano dalla guerra, dalle milizie, dalle faide”.
Cosa vi raccontano?
“Violenze e crudeltà iniziano dall’attraversata del deserto per arrivare fino alla Libia dove si estremizzano con segregazioni e maltrattamenti di ogni genere. Parlano di camion strapieni di persone che attraversano il deserto, se cadi nessuno si ferma a riprenderti. In Libia, poi, vige un sistema di violenze, torture ed estorsioni gestito dai trafficanti di esseri umani verso l’Europa”.
Tutto questo quali ripercussioni ha sui migranti?
“Arriva loro il senso che la vita non valga nulla, che non ci sia alcun rispetto minimo del diritto della persona. Tanto vale per loro l’arrivo nei Centri di raccolta in Italia. Vengono spesi molti soldi da chi si mette in fuga da tutto questo. Emerge la consapevolezza che non c’è un’altra scelta, un altro modo. Non ci si può salvare chiedendo un visto e un biglietto aereo e magari spendere il denaro che si ha senza dover passare dai centri di accoglienza”.
Voi che idea vi fate?
“Quando ascolti innumerevoli volte queste storie viene naturale chiedersi come mai non venga favorito un sistema di circolazione diverso, che eviti il fenomeno della tratta illegale, delle morti. Sembra non ci sia altro modo, ma invece potrebbe esserci la libera circolazione, un movimento secondo il diritto come avviene per il resto del mondo, ma non evidentemente per l’Africa”.
Cosa pensano del nostro Paese?
“Molti ci confessano che l’Italia non è la meta che si vorrebbe scegliere (inizia, infatti, a diffondersi la consapevolezza che non c’è tanta speranza di trovare lavoro qui). Il sistema di protezione internazionale in tema di diritto d’Asilo, che in Unione Europea è coordinato dalle direttive del Regolamento Dublino II (f2003/343/CE), li blocca invece, proprio qui”.
Cosa succede una volta che arrivano in Italia?
“Vengono raggruppati nei vari CDA (centri di accoglienza) e soprattutto nei CARA (centri accoglienza richiedenti asilo) dove possono fare richiesta di protezione internazionale. Se hanno i requisiti, possono accedere al sistema SPRAR (sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati). Il servizio centrale che ha sede a Roma invia i richiedenti nelle varie sedi di progetto di tutta Italia. Il sistema SPRAR prevede l’accoglienza in Italia di circa 20.000 persone”.
Questo riconoscimento quali diritti comporta?
“Il progetto ha come obiettivo l’integrazione. Quindi, i beneficiari che hanno avuto risposta positiva di protezione internazionale dalla Commissione Territoriale (commissione competente nel territorio del centro accoglienza), hanno diritto ad essere accolti in un alloggio, al vitto, alla partecipazione a corsi di alfabetizzazione in lingua italiana, a corsi per prendere la licenza di terza media, a corsi di formazione, stage e tirocini. Vi è poi la tutela sanitaria, l’accompagnamento legale, il sostegno psicologico nei casi di fragilità, l’accompagnamento all’inserimento nel tessuto sociale del comune che li accoglie”.
Voi come gestite il progetto SPRAR?
“Attraverso un coordinatore e tre educatori che hanno specifiche competenze in campo giuridico, medico e psicologico: seguono i beneficiari per la durata della loro accoglienza (che è di circa 6/12 mesi). Collaborano inoltre al progetto altri operatori esterni quali una psicologa, un avvocato e mediatori culturali dell’Associazione Beetween. Infine, il progetto prevede una forte collaborazione fra gli operatori e gli enti locali, quindi referenti dei comuni e Provincia. Un altro grande obiettivo del progetto è la promozione della cultura dell’accoglienza e del rispetto dei diritti della persona. Infatti, organizziamo insieme agli enti locali, ai beneficiari e alle associazioni del territorio sensibili al tema (come ad esempio Soyinka), eventi come la lettura di favole legate all’accoglienza che l’anno scorso abbiamo fatto con Alessia Canducci, proiezioni di film su questa tematica, flash mob…”.
Con quali risorse viene realizzato tutto questo?
“Attraverso un finanziamento ministeriale, che grosso modo prevede una spesa giornaliera per ogni persona accolta di poco più di 30 euro, che però – e questo è da chiarire bene – non finiscono nelle tasche dei beneficiari, ma servono per pagare i servizi che vengono forniti loro, quindi pagare gli affitti, le utenze, le visite, i tirocini, gli operatori di progetto, il vitto, ecc.”.
<+FirmaCoda>Alessandra Leardini