Diciassette anni, un’eternità. Era il 1998 quando la Riviera riminese, sfoggiando ancora una volta la sua imprevedibile creatività, finì sui media nazionali per il tormentone dell’estate: il grido “Valerio”. La storia non ci dice con precisione chi fosse questo Valerio né come cominciò il gioco. Ma divenne talmente virale, usando un termine social per un’epoca dove il top erano ancora gli sms, che per settimane divenne quasi un’ossessione. Soprattutto, scriveva il Corsera, per “il significato del gioco, appunto quello di non avere alcun significato”. Oggi i tormentoni, macinati nella pressa dei social network, hanno vita breve. Qualcuno però riesce a resistere più degli altri come, quest’anno, “allora chiudiamo il…” nato, con originario senso polemico, dopo il caso Cocoricò. Ad ogni fatto negativo si completa la frase con la sede del fatto in questione. La patria è la stessa: anche Valerio partì da Riccione. Il retrogusto un po’ diverso, perché se Valerio era pura spensieratezza qui c’è dell’amaro per il contesto che ha originato il tormentone. Nessuna tirata contro i tempi moderni, state tranquilli. Che i social riescano a banalizzare e mettere tutto sul ridere può essere un vizio quanto una virtù. Solo la considerazione che oggi quel “Valerio” diventerebbe un hashtag, un post da condividere ma senza forse creare quel senso di “appartenenza alla stessa tribù” (sempre il Corsera) che si respirava urlandolo per strada. Però possiamo sempre fare un gruppo Facebook “Noi che urlavamo Valerio”.