Forse non tutti i miei “amici” di facebook sanno che in questi giorni mi sono preso una vacanza, beh una vacanza del tutto strana, in sintonia con questo tempo: una vacanza in ospedale!
Ma procediamo con ordine: prima il racconto, poi i commenti.
Giovedì sera, della settimana scorsa, comincio a star male: un dolore continuo alla cassa toracica e anche in pancia. La notte è difficile; oltre a non dormire, mi devo alzare per dei conati di vomito. La mattina le cose non cambiano. A pranzo prendo solo un maccheroncino e una sardina, ma non passa niente: adesso è vomito pieno. Chiamo il mio dottore (davvero pronto e bravo!), lui ha una indicazione precisa: subito al pronto soccorso di Rimini, li vedranno bene qual è il problema (lui l’aveva intuito) e cosa fare.
Parto verso le 17 con don Andrea; inizia il lento iter di controlli, visite, analisi, ecografie, ecc. Verso le 21,30 c’è la visita da un medico del reparto chirurgia. Questo dottore legge i referti, da una leggera controllata all’intestino e, facile facile, dice: “Sig. Conti, la ricovero subito in reparto e forse già questa notte la operiamo”.
Ah davvero? E per che cosa? Risposta (circa): “La cistifellea è piena di calcoli, ed è infiammata: bisogna toglierla, non è più il tempo delle cure. Anzi, se facciamo l’intervento subito e tutto va bene, lei domani può tornare a casa”. D’accordo. Don Andrea torna a portarmi qualcosa (non ero preparato a diventare un paziente di ospedale), giusto il tempo di salutarlo e parto per un’altra visita.
Mi viene data una camera in chirurgia: i letti sono tre ma sono da solo (tra varie domande, ormai sia medici che infermiere sanno che sono un prete… chissà).
Ora comincia l’attesa, e una notte agitata. Intervento rimandato. Al mattino (sabato) un bel gruppo di medici si presenta e discutono tranquillamente davanti a me: operare o non operare? Prevale la tesi di chi dice: prima dobbiamo verificare se è o no positivo al covid, dobbiamo saperlo per la sterilizzazione della sala operatoria. “Sig. Conti, inizia la pratica per il tampone, abbia pazienza!” Certo, ci metto tutta la pazienza che ho. E aspetto.
Una giornata lunga, senza mangiare e senza bere, e con parecchio dolore. A sera ancora non è arrivata la risposta (naturalmente questo tampone mette un po’ d’ansia). Terza notte quasi insonne e con dolore, ma non più alla cassa toracica, solo in zona cistifellea.
Al mattino (Domenica delle Palme) arriva un dottore: “Lei è negativo al coronavirus, ci prepariamo all’intervento”. In ospedale, tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo molto tempo, e così entro in sala operatoria dopo le 11. Mi addormentano e mi risveglio nella mia stanza verso le due del pomeriggio.
“Tutto bene sig. Conti?”. Si, tutto bene. Lentamente, un po’ alla volta mi permettono di alzarmi, le funzioni vitali ci sono, sento anche la sete (due giorni) e la fame (tre giorni!). Nottata, finalmente tranquilla. Lunedì mattina arriva tutta l’equipe di chirurgia, in testa il primario, e dopo poche battute, ecco la notizia: “Oggi la dimettiamo, se ne torna a casa”. Anche qui vien fuori che sono un prete (ho fatto qualche domanda un po’ “curiosa”) e alcuni di loro, i medici, dicono che han tanto bisogno di preghiere!
Nel primo pomeriggio, accompagnato da una brava infermiera di Villa, termina la mia “vacanza”, non sono più “paziente” e sono a casa.
Ho avuto tempo per riflettere su questa breve ma intensa esperienza. Cosa ho imparato? Mi fermo su alcune considerazioni.
Ho imparato ad accettare l’imprevisto e a starci dentro. Sono abituato, siamo tutti abituati a calcolare, organizzare, programmare. Ho imparato a lasciarmi andare, ad accogliere quello che mi veniva dato, sempre inatteso, diverso ma vero, carico di umanità e di vita.
Ho riflettuto sul tempo e sulla misura del tempo; spesso il suo valore è dato dal rendimento, dal portare a termine risultati, dal correre per fare qualcosa di più. Ma in ospedale non è così, il tempo rallenta, quasi si ferma.
E le persone, a partire da medici e infermiere, sono lì per te, danno tempo, quello che ci vuole per te e per ogni paziente. Non corrono, non vanno di fretta, si prendono cura di ognuno per il tempo che ci vuole. Mi chiedo se noi, come persone e come chiesa, rischiamo di usare male il tempo, perché il nostro correre non permette rapporti veri, attenti, sinceri.
Ho imparato anche ad essere più paziente. Non avevo mai riflettuto sul fatto che i malati sono definiti “pazienti”; esserlo davvero non è una cosa automatica, è una disposizione di animo, una scelta. Perché si può sopportare di malavoglia, si può imprecare. Mi sono affidato, mi sono messo nella mani di Dio e delle persone che mi curavano, e questo mi ha dato serenità.
Dov’è Dio in un ospedale? L’ho cercato nei simboli (qualche crocifisso, la cappellina…), l’ho cercato in me (da malati è più difficile pregare, anche per un prete); l’ho trovato negli avvenimenti che mi sorprendevano e che dicevano una “cura per me”, una “protezione benevola”; l’ho trovato soprattutto nelle persone, nella semplicità e bontà dei rapporti, nella attenzione e nella loro cura amorevole.
Cosa vuol dire essere cristiani, dove è la chiesa in ospedale? Ho trovato tanto rispetto per me prete (preghi per me!), ho ascoltato persone che parlavano bene del loro parroco (si impegna, sta con i giovani), ho visto persone commosse per le liturgie del papa. Ma l’esperienza più importante l’ho vissuta domenica delle Palme.
Nel secondo pomeriggio arriva una inserviente (non era del reparto, non sapeva che aveva davanti un prete), comincia a pulire e poi, con una certa timidezza mi si mette davanti e dice: “Guardi, se non le dispiace, ho portato qui un rametto di ulivo benedetto, e un foglietto con una preghiera. Sa, questa è l’ultima stanza, l’ho portato a tutti e tutti l’hanno gradito”.
Mi alzo lentamente e dico: “Sai chi sono io?”. Un po’ impaurita risponde: “No”. “Sono un prete; che cosa bella, che cosa grande che hai fatto!”. Allora, rincuorata, racconta: lei vive in un condominio in cui c’è anche un diacono (si ritrovano ogni tanto a pregare); si sono organizzati, il diacono ha benedetto i rami alla porta ed ha incaricato ognuno di “fare meglio che poteva”.
Lei ha pensato bene di portarli ai malati in ospedale ed anche a me, prete. La mia prima Domenica delle palme senza Messa, senza Eucarestia, è stata ravvivata da questo piccolo, ma autentico gesto di fede popolare che mi ha testimoniato una “chiesa dal basso”, di cristiani semplici e umili, che non si nascondono e sanno vivere segni di fede tra la gente!
Cari amici, ho voluto condividere con voi questa esperienza, certo un po’ lunga, ma in questa strana situazione, in questa Settimana Santa così unica, forze qualcuno avrà la “pazienza” di arrivare fino in fondo, e ciò che è servito a me potrà giovare un po’ anche a lui. Questo è il mio auspicio, con i migliori auguri per questa Santa Pasqua, di morte, resurrezione e vita nuova.