Ci sono bambini che giocano sull’asfalto tra i cavi elettrici e gli adulti che fanno scudo ai vani tecnici per evitare che vi si avvicinino mentre giocano. Ci sono malati, anche gravi, che dormono di fianco a fogne a cielo aperto. Intere famiglie senza servizi igienici che espletano i loro bisogni corporali lungo il parco Marecchia e che si lavano in grandi recipienti riscaldando l’acqua con dei resistori elettrici. Scene di vita quotidiana al campo rom di Via Islanda; un appezzamento di terra che, nonostante venga chiamato “campo”, ha poco di bucolico, in cui una dozzina di roulotte vetuste e malandate sono state gettate in maniera disordinata come pedine della dama su una spianata di asfalto.
La giornata in cui vi faccio visita è una di quelle estive più calde con il sole che trasforma ciascuna dimora in una serra. L’arsura che sale da quella gettata di bitume è insopportabile. “Hai bisogno?”, mi chiedono i suoi abitanti appena arrivo, incuriositi dall’ospite inatteso. “Come fai a stare qua con questa puzza?”, aggiungono subito dopo le presentazioni. Tra una baracca e l’altra corrono sopra il suolo una serie di tubi di plastica che portano le acque sporche verso dei tombini sigillati alla bell’e meglio. Come serpenti impregnati di lerciume, invadono tutta l’aria costringendo la gente a fare attenzione a non inciamparci ogni volta. E nell’aria è diffuso un odore acre, fastidioso, con una nota dolciastra, a cui non è possibile abituarcisi. “È insopportabile vivere così”, dice un 40enne col diploma di saldatore.
Parlo con loro del progetto di micro-aree di Comune e Regione, ma sono poco fiduciosi verso le istituzioni. “Negli anni, tante parole e pochi fatti – dicono disillusi -. Siamo i primi a volercene andare da qua, perché non vogliamo più vivere come dei cani, ma non ce lo possiamo permettere. E intanto qua paghiamo le bollette come tutti”.
Nella loro voce c’è lo stesso sfinimento che provava Latif, ex inquilino dell’accampamento di Via Islanda e padre di famiglia rom la cui storia abbiamo raccontato sul Il Ponte un anno fa, quando era prossimo allo sfratto dalla sua abitazione tradizionale. “Ci terrorizza l’idea di tornare in un campo – diceva -. Non si possono crescere lì i figli. In questi anni ci siamo integrati con i nostri vicini di casa e ci piace vivere con gli altri riminesi”, affermava dopo che l’esperienza della vita di quartiere aveva cancellato quella del ghetto zingaro. “A noi va bene l’idea di essere spezzettati in piccole aree e andarcene via da qua”, quando me lo dicono in Via Islanda, ricordo quando Rita, la moglie di Latif, mi spiegava che tra i rom non corre più buon sangue e si litiga molto.
Una madre di famiglia di 42 anni senza marito spiega che vorrebbe vivere in una casa “normale”, ma che non può permettersi di pagare un affitto. “Quando faccio le pulizie nelle case degli altri, piango nel vedere le cose che li circondano – confessa – , anche io vorrei vivere così, ma con un lavoro part-time stagionale e una figlia diabetica non ci riesco”. Mi mostra le siringhe per l’insulina della ragazza e le confezioni del medicinale di cui sottolinea i costi. Poi tira fuori il contratto di lavoro con gli orari pattuiti che gli permettono di portare a casa 780 euro al mese, ma solo in estate. È in Italia da 16 anni, ha regolare residenza e, come ogni dipendente, paga le tasse. Ma la discriminazione che sente sulle spalle è ancora forte. “Basta che finisca sui giornali un rom che fa del male e ci rimettiamo tutti. In tutte le etnie ci sono gli onesti e i disonesti. Noi – assicura – non abbiamo mai avuto problemi con la giustizia”. Vero o no, si è sempre fatta di tutta l’erba un fascio.
Una piscinetta di gomma sull’asfalto, cinta dai tubi di scarico e riempita di acqua opaca, è l’unica attrazione per i più piccoli. Un bambino di 4 anni mi si avvicina affascinato dalla fotocamera che porto con me. Gli chiedo se vuole scattare una foto. Alla proposta gli si illumina il volto e, dopo aver sentito lo scatto di cui ne è stato l’artefice, saltella verso il padre colmo di gioia. “Bravo, amore. Sei come un giornalista adesso”, dice l’uomo al suo piccolo.
Mirco Paganelli