Nell’Arena di Pola una nuova produzione del Teatro Nazionale Croato firmata dal regista Marin Blažević con il mezzosoprano Ivana Srbljan
POLA, 1 luglio 2019 – Le scarpe, in teatro, hanno sempre un forte valore simbolico: servono per ancorare i personaggi al suolo, così come per farli allontanare o addirittura fuggire. Per una donna, poi, possono diventare una potente arma di seduzione, che sconfina nel feticismo. In Carmen, appena andata in scena all’Arena di Pola come nuova produzione del Teatro Nazionale Croato, il regista Marin Blažević (che ne è anche il direttore artistico) fa indossare alla giovane protagonista sgraziati scarponcini di foggia maschile, simili a quelli che portano oggi le ragazze; solo quando è all’apice della felicità, innamorata del fascinoso Escamillo, se li toglie – insieme ai calzettoni – per restare a piedi nudi: arresa di fronte all’amore. Il regista croato si tiene lontano dai luoghi comuni sedimentati sul capolavoro di Bizet: nessuna tentazione di esotismi spagnoleggianti o ricerca di un improbabile colore locale che, nel tempo, è diventato solo una convenzione retorica, né stereotipi di seduttività più o meno scontati.
La regia, invece, è protesa all’individuazione degli archetipi teatrali racchiusi in un’opera che ne offre una felicissima sintesi, e spiega il fascino – immutato dal 1875 – che esercita su ogni tipo di pubblico. Per questo Blažević non utilizza scenografie (peraltro superflue, visto che l’azione si svolge lungo le gradinate dell’Arena) e si avvale solo di qualche oggetto: dal fiore al coltello, dalle scarpe – appunto – alla corda che serve per imprigionare la protagonista e poi si trasformerà in legaccio sempre più soffocante per Don José.
Carmen, per Blažević, è dunque una impavida ragazza di oggi, che con il suo comportamento non convenzionale fa deflagrare situazioni latenti e inespresse. Fin dal suo ingresso, quando canta l’Habanera (dove peraltro già serpeggia un sottile retrogusto di morte), i danzatori, che si mescolano alle persone sedute sulle gradinate dell’Arena, sembrano amplificare l’erotismo del suo canto per trasmetterlo fisicamente al pubblico, agendo come detonatori di una sopita sensualità. E nel finale – quando Don José e Carmen intraprendono una lunga marcia di avvicinamento, che è una sorta di magnetica e ineluttabile attrazione degli opposti – lui la ucciderà soffocandola con un bacio: un rimando all’Otello di Verdi ancor più che a quello di Shakespeare. L’accurato lavoro di Blažević sugli equilibri d’insieme si manifesta soprattutto attraverso la fisicità degli attori. Il mezzosoprano Ivana Srbljan, elemento di spicco della compagnia del Teatro Croato, ha disegnato una protagonista risoluta e quasi mascolina: molto espressiva, scenicamente incisiva, sicura nel canto e capace di trasformare in punto di forza una voce non sempre omogenea, ma ben timbrata e penetrante.
Il tenore Aljaž Farasin è riuscito ad affrontare con discreta sicurezza Don José, disegnando un uomo fragile, dedito alla vita militare più per ricerca di conferme che per vocazione. Interprete di Escamillo, stereotipo del vincente e dunque del seduttore, il basso Luka Ortar (il più penalizzato dagli effetti dell’amplificazione) è apparso un po’ in difficoltà per un canto talvolta squadrato e una certa mancanza di brillantezza in acuto. Senz’altro migliore, nel suo ruolo di surrogato della figura materna, la Micaëla lirica e morbida di Annamarija Knego. Fra le parti di fianco, molto bravo il baritono Robert Kolar che, in virtù della sua autorevolezza vocale, riesce a fare dell’ufficiale Moralès un autentico personaggio. E meritano una citazione anche Ivan Šimatović e Marko Fortunato, per come hanno saputo tratteggiare il Dancaïre e il Remendado, la coppia di contrabbandieri.
Dal podio Yordan Kamdzhalov, attuale direttore musicale del Teatro Croato, ha impresso un andamento fin troppo veloce alla musica nelle parti solo strumentali, rinunciando però a scavare in profondità nella psicologia dei personaggi. Per fortuna ci ha pensato la regia.
Giulia Vannoni