Il trovatore ha inaugurato la stagione del Teatro Comunale di Bologna in un affascinante allestimento firmato dall’americano Robert Wilson
BOLOGNA, 22 gennaio 2019 – Anestetizzare le passioni per lasciar spazio a risvolti ironici o a intense suggestioni poetiche, poco importa se in apparenza lontane dalla materia drammatica, salvaguardando sempre una rarefatta eleganza formale. Succede ogni volta con gli spettacoli di Bob Wilson: l’impatto visivo è fortissimo – a catturare il pubblico basterebbe il solo uso delle luci, magistrale – e Il trovatore che ha inaugurato la stagione d’opera bolognese naturalmente non fa eccezione. Con i personaggi trasformati in astratte silhouette (i componenti del coro hanno perso ogni individualità, ridotti a nere figurine quasi senza volto, in redingote e copricapo napoleonico), l’opera di Verdi diviene una fiaba vagamente noir, al di fuori del tempo. Ce lo ricorda un osservatore muto che siede su un lato del palcoscenico, così come una signora, provvista di guantoni da box (evocazione di quelle figure matriarcali appartenenti all’immaginario italiano?), che interverrà nella mischia di un surreale incontro di pugilato: una sorta di pantomima prima del terzo atto, quello che si apre con l’accampamento degli armigeri. Wilson non trascura la dimensione della memoria e del ricordo – componente imprescindibile nel Trovatore – affidandola a qualche filmato d’epoca e a rapide incursioni sul palco di personaggi che però non interagiscono con gli interpreti: un terzetto femminile formato da una mamma e due bambine (s’immagina siano sorelline, antitetiche rispetto a Manrico e al Conte di Luna) gira attorno a una fontana che ha preso il posto del rogo; una eloquente carrozzina viene spinta durante il racconto di Azucena e ricompare poi come rottame.
L’algido rigore registico, pur trasformando in fulminanti immagini le implicazioni psicanalitiche alla radice del libretto di Cammarano, forse fa correre il rischio di disinnescare quel magma incandescente che trabocca dalla musica verdiana; tuttavia, mai è apparsa così chiara la geometria dei rapporti fra i personaggi del Trovatore e le loro dinamiche: con un primo triangolo che ha al suo vertice una donna, Leonora, contesa da due uomini, e un secondo che vede un uomo, Manrico, diviso fra l’amore per due donne.
Reggere l’impatto con il segno visivo di uno dei grandi maestri del nostro tempo è arduo anche per una bacchetta di collaudata esperienza come Pinchas Steinberg. Ben assecondato dall’orchestra bolognese, il direttore è stato protagonista di un’esecuzione in apparente sintonia con lo spettacolo: avara di emozioni, molto nitida e fin troppo asettica, mentre avrebbe potuto osare di più (del resto la regia lasciava ampio spazio alla musica, anche a un approccio più coinvolgente sul piano emotivo). Peccato davvero, poi, per il taglio dei ‘da capo’ delle cabalette, quando ormai dovrebbe esser acquisito che tali sforbiciature sono un retaggio del passato.
Dalla ieratica atmosfera zen aleggiante sullo spettacolo traggono maggior vantaggio gli interpreti, sempre in primo piano. A spiccare è soprattutto il soprano cinese Guanqun Yu, che si è imposta per una linea di canto sicura e sempre più coinvolgente con il procedere della serata. Nino Surguladze nei panni di Azucena – difficile pensare a lei come a una zingara, dati gli abiti astratti di Julia von Leliwa – è riuscita a compensare una certa disomogeneità e qualche suono poco controllato con una convincente incisività espressiva. Sul versante maschile, il tenore Riccardo Massi ha dimostrato apprezzabili qualità vocali, nonostante un canto talvolta in disordine soprattutto sul piano dell’intelligibilità. Chiamato a sostituire il titolare, Vasily Ladyuk ha messo in luce un bel timbro baritonale, riuscendo a imprimere una certa intensità al Conte di Luna, pur con qualche rigidità nel fraseggio. L’emissione talvolta scompaginata di Marco Spotti ha invece sottratto parte del suo fascino al racconto di Ferrando.
All’altezza del compito la prova del coro, preparato da Alberto Malazzi, in grado d’inserirsi correttamente nella partitura visiva.
Giulia Vannoni