I tre capolavori di Mozart su libretto di Da Ponte proposti durante la trilogia d’autunno del Ravenna Festival, con una trasferta riminese
RAVENNA, 4, 11, 6 novembre 2022 – Bisogna essere grati al Ravenna Festival che quest’anno, per la trilogia d’autunno, ha scelto di mettere in scena le tre opere di Mozart su libretto di Da Ponte. Si è avuta così l’opportunità di ascoltare, in un breve arco di giorni, tre capolavori assoluti che, con apparente spensieratezza musicale, dissimulano motivazioni culturali tra le più complesse e raffinate. Se Le nozze di Figaro (1786) hanno alle spalle la commedia Le mariage de Figaro in cui Beaumarchais, pochi anni prima, aveva posto in evidenza le tensioni sociali destinate a esplodere nella rivoluzione francese, Don Giovanni, nata l’anno successivo, è densa d’implicazioni filosofiche come nessun’altra opera, con la sua ambivalenza tra giocosità e tragedia. Le radici affondano sia nel pensiero libertino – una corrente che ha innervato tanta produzione settecentesca – sia nelle più profonde istanze spirituali, poi teorizzate in saggi divenuti celebri, come quello di Kierkegaard: grazie a Mozart la figura del grande seduttore, già presente in un’ampia tradizione teatrale, si configura così in vero e proprio mito, che trova la sua estrinsecazione nella pura musica. Mentre per Così fan tutte – terzo e ultimo titolo della collaborazione con Da Ponte, che arriverà solo nel 1791 – bisogna guardare alla stagione della Naturphilosophie tedesca, la stessa che di lì a poco darà vita a Le affinità elettive di Goethe. Qui la chiave comica è affidata all’antico stratagemma teatrale del travestimento, che assume però implicazioni problematiche con l’evocazione della figura di Mesmer, il tanto discusso – allora come oggi – medico magnetizzatore .
Frutto di una coproduzione internazionale che coinvolge anche Francia e Spagna, i tre spettacoli sono nati per il piccolo teatro di corte di Drottningholm, in Svezia, e portano la firma del regista Ivan Alexandre, mentre Antoine Fontaine è autore della versatile e semplicissima scatola scenica, unica per tutte le opere: i vari ambienti sono disegnati da tende, ogni volta dipinte in modo diverso, che funzionano come quinte mobili. Prima che cominci la musica, la regia colloca già gli interpreti al proscenio, dove completano la loro vestizione (i costumi minimalisti d’ispirazione settecentesca sono dello stesso scenografo) sotto lo sguardo del pubblico; ed è una scelta che, abbattendo il muro di separazione tra palco e platea, si rivela felice per vicende legate a un immaginario condiviso, anzi ormai archetipico.
Mantenendo l’ordine cronologico, la trilogia si è aperta con Le nozze di Figaro. Protagonista un po’ troppo sopra le righe il baritono canadese Robert Gleadow, unico interprete in comune ai tre spettacoli, che cerca di compensare con l’esuberanza scenica i limiti di un’emissione disomogenea e di una mancanza del giusto accento nella parola italiana. Clemente Antonio Daliotti ha interpretato un Conte sornione, capace di suggerire l’ambiguità di un personaggio che è un seduttore impenitente, sospettoso però nei confronti della moglie dalla quale pretende assoluta fedeltà. Una Susanna piena di verve è stata Arianna Vendittelli: la dizione non è sempre nitida quando il ritmo diviene incalzante (un limite non da poco, con i versi di Da Ponte), mentre più espressiva è apparsa nel languore dell’aria Deh vieni non tardar. Anna Maria Labin, vocalmente assai solida, è una Contessa statuaria, quasi regale, ma la vera sorpresa è stata il giovane mezzosoprano Lea Desandre, d’impeccabile fluidità e perfetta nelle vesti maschili di Cherubino. Valentina Coladonato ha raffigurato una Marcellina oscillante tra ironia e introspezione, mentre la Barbarina di Manon Lamaison era penalizzata da un accento straniero troppo marcato. E poiché nell’esecuzione ravennate è stato soppresso il coro, surrogato di volta in volta dai vari interpreti, è apparsa spiritosa l’idea di valorizzare per Don Basilio (l’insinuante Paco Garcia) le caratteristiche del maestro di musica, affidando a lui la direzione di questi piccoli insiemi. Sul podio, Giovanni Conti ha ottenuto sonorità scorrevoli dall’Orchestra Cherubini: semmai gli si può rimproverare la scelta di tempi fin troppo lenti, standardizzati su un mezzoforte un po’ anodino, mentre sarebbe stata necessaria una maggior tensione ritmica per esaltare la vitalità di quest’opera.
Nel Don Giovanni, la lettura musicale di Erina Yashima, pur precisa e corretta, tendeva – almeno nelle intenzioni – a valorizzarne la componente tragica più di quella giocosa, ma latitava, fin dall’ouverture, il vitalismo necessario a sottolineare le imprese dell’impenitente seduttore. In palcoscenico (qui ci si riferisce a una recita in trasferta a Rimini) Christian Federici, pur con un canto corretto e adeguato physique du rôle, è apparso un Don Giovanni poco sanguigno e fin troppo compassato, tanto che l’ipercinetico Gleadow gli porta via spesso la scena proprio a causa di un esibizionismo, invece, eccessivo (per tacere di un’emissione talvolta scompaginata). Risultato: il rapporto padrone-servo, che Mozart e Da Ponte già rivestono di ambiguità, appare piuttosto sbilanciato. Iulia Maria Dan ha il colore del soprano drammatico e disegna un’intensa Donna Anna; mentre da parte sua la Vendittelli ha convinto più nelle vesti di Donna Elvira che in quelle di Susanna: peccato, semmai, che – trattandosi della prima versione, a Praga – mancasse la splendida aria Mi tradì quell’alma ingrata. Lo stesso vale per Don Ottavio, l’apprezzabile tenore Julien Henric, privato di Dalla sua pace. Completava il terzetto femminile Chiara Skerath, vocalmente graziosa, ma senza quella malizia necessaria a configurare il personaggio di Zerlina. Interessante l’idea di far interpretare – come si fece per la prima del 1787 – allo stesso cantante, Callum Thorpe, il ruolo del Commendatore (dove è apparso più convincente) e di Masetto. Basata sulla valorizzazione attoriale dei cantanti, la regia di Alexandre trova anche una soluzione scenica di notevole efficacia per il finale, quando il protagonista sta per precipitare all’inferno: sono dei preti in tonaca nera ad allestire il banchetto dove Don Giovanni invita il Commendatore; e saranno proprio loro a traghettarlo nel mondo dei dannati, lasciandolo scomparire con un semplice sollevare della tovaglia.
In Così fan tutte, il quadrilatero dei giovani innamorati su cui il “chimico” Don Alfonso compie il suo esperimento sui sentimenti era formato dall’esperta José Maria Lo Monaco, una Dorabella dal suggestivo timbro scuro, e ancora dalla Labin come Fiordiligi, che nonostante un’indisposizione ha cantato Come scoglio con un ‘da capo’ davvero pregevole per le colorature. Ferrando di voce gradevole è stato il tenore Anicio Giustiniani Zorzi, sebbene nel corso della recita abbia via via manifestato qualche segno di stanchezza. Nel primo atto, ancora una volta con qualche eccesso di gigioneria, Gleadow ha interpretato Guglielmo, ma a causa di un infortunio è stato sostituito nel secondo da Norman Patzke, che ha cantato a leggio, sfoderando un’apprezzabile rotondità vocale da basso-baritono, peraltro già evidenziata nel doppio ruolo di Bartolo e Antonio nelle Nozze. Più che con la brillantezza maliziosa della soubrette mozartiana, Miriam Albano profila la sua Despina in termini grotteschi: i momenti di travestimento maschile – da caratterista smaccata – le si confanno, mentre convince meno quando instilla nelle due protagoniste le arti femminili della seduzione. Del tutto a suo agio (assai più che in quelli di Don Giovanni) nei panni di un compassato Don Alfonso, demiurgo della vicenda, si è trovato invece Federici. La sorpresa più piacevole, comunque, è giunta dal podio: la giovane brasiliana Tais Conte Renzetti ha saputo differenziare accuratamente i vari numeri musicali, riuscendo a gestire assai bene il meraviglioso ma arduo terzettino Soave sia il vento – una musica da governare al millimetro – e sostenendo sempre i cantanti anche nei recitativi. Mentre Alexandre sigla la più divertente delle sue tre regie: la realizzazione scenica dell’apparecchiatura azionata per inscenare la terapia mesmerica nel finale primo è apparsa, una volta tanto, davvero esilarante.
Giulia Vannoni