La storia. A 28 anni decide di partire in Bolivia per un anno. “Un’opportunità da cogliere”
Prima di sedersi alla cattedra per insegnare le amate Lettere, Simone Mussoni ha deciso di indossare un casco. Il casco bianco dei volontari della comunità Papa Giovanni, per un anno di servizio civile dall’altra parte del mondo, sull’Altipiano delle Ande a più di 3500 mt sul livello del mare.
28 anni, riminese di Rivabella, il riccioluto e barbuto Simone vive a La Paz e prima di ritornare in riva all’Adriatico ci racconta la sua esperienza da volontario.
Come ha preso corpo l’idea di un anno di servizio civile? Era un’idea che cullavi da tempo o si è fatta largo all’improvviso?
“Nel 2022 ho presentato domanda con Focsiv per il servizio civile estero, ma in maniera blanda e casuale. Per una serie di motivi quel progetto non è partito e sono rimasto a casa.
L’anno seguente ho ripresentato domanda, sono stato accettato per La Paz, con possibilità di partire nel giro di pochi mesi.
Ho vissuto l’attesa tranquillo, senza troppe aspettative, aperto di mente e di cuore per cercare di accogliere le novità (e anche le ‘stranezze’) che inevitabilmente mi aspettavano.
Perché il servizio civile volontario a 28 anni? Per due motivi: in quel frangente non sapevo bene cosa fare e ho pensato che era meglio seguire l’istinto piuttosto che pentirsi tutta la vita di non averci provato. Volevo cambiare aria e prospettiva di vita, vivere e non visitare l’America Latina, i progetti mi sembravano interessanti, mi sono lanciato”.
Perché l’America Latina e la Bolivia in particolare?
“L’America Latina – come l’Europa – è un continente composto da tanti Stati diversi tra loro. Un mondo che avrei voluto vivere sin da giovane: mi affascinava, come pure i sudamericani che avevo conosciuto in precedenza. Sentivo una tensione a doverci andare non da turista ma per un tempo più lungo.
Rispetto ai diversi progetti che si prospettavano, la Bolivia mi sembrava uno dei luoghi più autentici e meno europeizzati, un Paese in cui si respira ancora tanta tipicità”.
In questo anno sei rimasto in contatto con la tua famiglia?
“Sono rimasto sempre in contatto, pur con le difficoltà logistiche oggettive (e 6 ore di fuso orario), cercando di avere sempre informazioni relative alle persone a cui voglio bene.
Se sei lontano e vivi in un altro Paese e un’esperienza diversa, è anche bello vivere quel posto e quelle persone senza continuamente riandare con la mente a casa tua”.
Eri già membro della comunità Papa Giovanni XXIII o hai preso contatti per l’occasione?
“Quale riminese non conosce la Papa Giovanni XXIII? Però era una conoscenza superficiale.
Nei mesi precedenti la partenza, ho conosciuto persone della comunità che potessero darmi un’idea della Apg e del servizio.
Ho trovato persone in gamba, che mi hanno aiutato a redigere la domanda e dato consigli sul servizio civile”.
In quale lingua ti esprimi?
“L’idioma locale è lo spagnolo, ma uno spagnolo particolare, a volte indecifrabile. Per fortuna lo pratico avendo vissuto per un certo periodo in Spagna, nonostante sia una lingua da imparare perché diversa dallo spagnolo europeo”.
Ti è mancata Rimini? E cosa?
“È il luogo in cui sono nato e ho vissuto tanto tempo, è impossibile non avvertire il distacco.
Sarò banale, ma quel che più è mancata è la cucina italiana.
In generale ti accorgi di quanto siamo fortunati e diamo per scontato anche l’architettura, la storia e il mare, una presenza forte nella mia vita. La Bolivia ha perso l’attracco al mare durante una guerra. Anche la socialità è diversa da quella riminese.
Quella romagnola è unica: condivisione di cibo, parole, idee, momenti intensi”.
Sei solo o hai compagni di viaggio?
“Con me ci sono altri tre ragazzi caschi bianchi: Tommaso di Villa Verucchio, Giulia di Padova ed Elisa di Cortona.
Ci siamo conosciuti a giugno, durante i colloqui per la candidatura, e ci siamo subito trovati molto bene. Si è creata un’affinità solida, abbiamo condiviso paure, voglie e desideri.
Nel percorso boliviano condividiamo dubbi, viaggiamo sempre insieme e ci vediamo tutti i giorni per svolgere i vari progetti”.
E il resto del tuo servizio? Con chi operi e come?
“Presto servizio in due progetti nella città sopra La Paz, iper abitata e piena di criminalità e povertà.
Al Centro ‘Comedor’ c’è la mensa per bambini e ragazzi dai 5 ai 16 anni. inoltre il Centro offre un appoggio scuola e per le famiglie che per problemi economici e sociali non sanno dove lasciare i figli.
Trascorrono mezza giornata con noi e i professori tirocinanti di Scienze dell’Educazione, li aiutiamo nei compiti e ad avere a tavola una alimentazione più sana ed equilibrata. Specie i bambini abusano di zuccheri, merendine e bevande gassate.
Per tre, quattro giorni a settimana opero invece nella comunità terapeutica con maschi adulti alle prese con problemi di dipendenza (droghe e alcol). Si sviluppano terapie psicologiche e lavorative, di reinserimento in società. C’è bisogno di reinserire queste persone in un contesto sano: condividiamo tempo, li aiutiamo in ciò che possiamo, offrendo loro anche spunti di riflessione.
Oltre a vivere il progetto Comedor e la comunità terapeutica, noi quattro caschi bianchi facciamo unità di strada. Andiamo cioè nelle zone dove
donne e uomini vivono per strada, e portiamo loro cibo e bevande. Quell’incontro è diventato uno spazio di libertà: parlano e si aprono, nonostante i drammi che vivono si confrontano e si liberano di certi pesi, oltre a domandarci coperte e vestiti. Ci vedono quasi come un punto di riferimento”.
Un episodio particolarmente toccante che ti porterai per sempre nel cuore “Ne ho vissuti tanti, ma uno su tutti mi ha segnato. Durante il servizio in strada, ho conosciuto una donna che mi ha raccontato la sua drammatica storia di sofferenza: 4 figli morti, e il marito deceduto per cirrosi epatica. Eppure lei aveva sempre il sorriso sulle labbra che non sapevi da dove arrivasse, e tatuaggi incomprensibili. ‘Segni della vita sul corpo”, mi ha confessato.
Pochi giorni fa mi hanno informato della morte di questa donna. Mi è dispiaciuto tanto e la notizia mi ha fatto riflettere: ci ero affezionato”.
È vero che hai dovuto “espatriare” per qualche tempo?
“Siamo partiti con in tasca un visto per un mese, che doveva essere prolungato grazie alle convenzioni in corso tra lo Stato e la Conferenza Episcopale Boliviana.
Lo scandalo che ha visto protagonista un prete (un fatto accaduto 30 anni prima), ha fatto rivedere le posizioni del Governo sui visti rilasciati ai volontari. Risultato: dopo 30 giorni ci hanno ritirato il visto e siamo ‘emigrati’ in Cile, un viaggio di 15 ore in fretta e furia. Siamo poi ritornati per riprendere un visto turistico da 3 mesi e intraprendere un percorso per ottenere la residenza temporanea”.
Simone, cosa c’è nel tuo futuro?
“Finito il servizio, tra un mese tornerò a Rimini, e proverò ad insegnare. Sono laureato in lettere, è un’opzione che mi alletta. In caso contrario, cercherò altre cose belle da fare”.
Cosa consiglieresti ad un coetaneo che sta pensando al servizio civile?
“Sono partito a 28 anni, l’età in cui tanti giovani pensano a stabilizzarsi. Nonostante la paura e l’incertezza, consiglierei a chi sente questa spinta di provarci. Tutto quello che mi è stato permesso di fare ha un valore inestimabile che porterò sempre con me, un valore aggiunto. Un bagaglio di conoscenze che altrimenti non possiederesti. È un’opportunità da accogliere”.