Terzino di marcatura non fluidificante (“superare la metà campo? Per carità!”). Baffo ingombrante in anni in cui la peluria in viso non era più di moda. Chissà quanti riminesi si ricordano di Luciano Favero, due stagioni in B inizio anni ’80. Sicuramente se lo ricorderanno di più gli juventini per quel quinto e fatale rigore negli ottavi di quella che era ancora la coppa Campioni col Real Madrid. Ma questa, per dirla alla Lucarelli, è un’altra storia. Quel che è certo è che Baffo-Favero è stato inserito tra i cattivi del calcio di casa nostra. A compilare l’ingrata lista ci ha pensato ancora una volta il giornalista Furio Zara, che dopo i 100 bidoni stranieri, è passato ai “brutti, sporchi e cattivi” del calcio (Gamba tesa, Rizzoli, 2008, pp. 264, euro 14).
In realtà i riminesi d’adozione nel libro sono due, perché oltre a Favero troviamo anche l’anarco-comunista Sollier. Lui però nella lista sta tra gli “irregolari”, non coi cattivi. Favero, invece, regolare nella sua carriera lo è stato. A Rimini c’era arrivato dopo tre stagioni in C nei bollenti campi di Siracusa. Sguardo severo, aria truce, si era segnalato per le sue marcature rigorosamente a uomo. Difesa guidata da Roberto Parlanti, tra i pali Zelico Petrovic (a proposito di baffi). Insomma non andò male. Non a caso venne notato dall’Avellino in A, prima del passaggio alla corte degli Agnelli. Qui c’era arrivato quale pedina di scambio, invece ci rimase cinque stagioni. Zara racconta che arrivato a Torino non faceva che ripetere: “Sono alla Juve: non ci posso credere”. E infatti dopo le spiagge assolate della riviera riminese e le danze tribali attorno alla bandierina di Juary, si trovò davanti un certo Michel Platini. Cambiando anche una formazione che fino a quel giorno era filata liscia come una filastrocca: Zoff, Gentile, Cabrini… In campo si faceva notare per un solo compito: “randellava senza rimorsi. Il mandante era il Trap, lui eseguiva. Era uno sporco lavoro, ma qualcuno doveva pur farlo”. Tant’è che nella tribuna del “Comunale” più d’uno storceva il naso quando lo vedevano toccare palla. I risultati però erano dalla sua: uno scudetto, una coppa dei Campioni (quella di Heysel), una Intercontinentale. Più di così. L’equivoco però finisce nella fredda serata del 5 novembre del 1986. C’è Juve-Real Madrid e si va ai rigori. Per la Juve hanno già sbagliato Brio e Manfredonia. Favero ha l’ingrato compito del quinto e ultimo: tira molle, Buyo para. Real avanti, Juve a casa. Cala il sipario, non però sul giocatore. “Oltre al baffo c’era di più – scrive Zara – la tenacia, per esempio. E la passione. Perché questa è la storia dell’uomo che non ha mai smesso di giocare. È tornato a casa, nella campagna veneziana, e non si è mai tolto dalla testa che all you need is tirare due calci al pallone”. E chissà se nella mente ricorda gli anni riminesi.
Filippo Fabbri