Questo non è un libro. È un poema: da trattenere e custodire gelosamente. Un album pregiato di splendide icone: da contemplare con occhi rapiti e commossi. Un appassionante sentiero dell’anima: da percorrere con i passi del cuore.
Un messaggio palpitante. Un ‘vangelo’ incandescente. Un “itinerario iconografico” che si apre al mistero della Bellezza. Tutto ciò riguarda la chiesa di Sant’Agostino – la più grande e tra le più antiche chiese di Rimini – che conserva il nucleo più consistente di opere del Trecento, detto appunto riminese. Con un’avvertenza preliminare: le righe che state leggendo non sono una prefazione. Sono un invito, cordiale e convinto, a entrare nella chiesa, dedicata in origine a San Giovanni Evangelista, e a contemplare la Verità custodita in queste pitture.
Entriamo. L’impatto è vertiginoso. Di colpo ci ritroviamo tuffati in un lago di silenzio. Arriviamo qui, malati di chiacchiericcio, di insopportabile frastuono, ma subito ci sentiamo calati in quegli abissi del cuore in cui abita la Verità. E “il naufragar m’è dolce in questo mare”… Qui non ci risulta difficile impedire alle amarezze, alle vane curiosità, agli affanni di agire. Mentre le solenni e caste pareti dell’edificio agostiniano ci trasmettono l’irresistibile sentimento di una Presenza: misericordiosa, amabile, tenerissima. Intraprendiamo il nostro percorso.
Il brivido di stupore che coglie oggi il visitatore è pressoché nullo rispetto a quanto poteva provare all’inizio del XIV secolo il fedele che metteva piede nella chiesa agostiniana. Pertanto, ancora una volta, bisogna ricorrere all’immaginazione per recuperare l’aspetto originario di questo spazio liturgico, profondamente trasformato fra Sei e Settecento.
Infatti nei primi decenni del Trecento, varcando la soglia dell’austero portale, i fedeli si trovavano in un grande vano spoglio con copertura a capriate, diviso quasi a metà da una sorta di ‘iconostasi’, un tramezzo che delimitava lo spazio riservato ai frati agostiniani (eremitani di sant’Agostino).
Come prima cosa i fedeli vedevano il grande Crocifisso dipinto su tavola, issato al centro del tramezzo, oltre il quale, sullo sfondo, si intravvedeva la mirabile abside affrescata, mentre, alzando lo sguardo verso l’alto, appariva, in tutto il suo splendore, il grande timpano con le scene del Giudizio universale (attualmente conservato presso il Museo della Città di Rimini).
Ora quel Crocifisso si trova sulla parete laterale destra, vicino a chi entra. È da lì che dobbiamo partire. Quel Crocifisso ci è indispensabile per non sbagliarci su Dio, sull’uomo, sulla storia, così come nel sacro tempio vengono raccontati. Dio è fatto così: non come il gelido monarca, ombroso e irascibile, che regna e impera da lontani, freddi e inaccessibili spazi siderali.
Nel Figlio crocifisso Dio ci si è fatto vicino: è l’Emmanuele, e noi lo possiamo guardare negli occhi, possiamo udirne il respiro, auscultarne il battito del cuore, accarezzarne le carni straziate. È l’onni-potente, ma è Padre, che per amore si è reso ‘onni-impotente’. Ricordiamo? “Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre…”. Abbiamo un Dio per padre! Abbiamo per padre un Dio! L’uomo. “Cosa è mai l’uomo perché Tu te ne ricordi?”. Nel Crocifisso l’uomo trova il suo specchio più fedele e la sua misura più vera. Scriveva il filosofo danese, Søren Kierkegaard: “Un re può essere un io di fronte ai sudditi, e si sentirà un io importante. Il bambino si coglie come un io in rapporto ai genitori, un cittadino di fronte allo Stato. Ma che realtà infinita non acquista l’io, acquistando la coscienza di esistere davanti a Dio, diventando un io umano la cui misura è Dio… Che accento infinito cade sull’io nel momento in cui ottiene come misura Dio!”. Pertanto all’uomo è proibito pensare dimessamente di sé, perché in tal caso rischierebbe di pensare dimessamente di Dio.
E la storia? Poniamoci davanti al grandioso affresco dell’abside. Immediatamente sotto il Salvatore benedicente, la gran Madre di Dio è dipinta intessendo i temi della Vergine in tro no e dell’Hodigitria. La Madonna, definita da Dante “la faccia che a Cristo più si somiglia”, indica Gesù bambino. Qui si celebra il Mistero dell’incarnazione. Come nell’iconografia bizantina, il Figlio non è un semplice bambino, ma un uomo in miniatura, Sapienza eterna fatta uomo. L’evento dell’incarnazione ha spezzato in due la linea del tempo. Perciò la storia umana non è “una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla”, secondo la sentenza scolpita da Shakespeare con sobria, eloquente efficacia. Alla constatazione angosciata della enigmaticità del male, la risposta dall’alto non è primariamente una delucidazione di tipo dottrinale, ma un accadimento. È l’evento dell’incarnazione, che ha trasformato il ‘senso’ – come significato e come direzione della storia – per dare origine a una storia “nuova e più vera” qual è la storia della salvezza. In conclusione, mi permetto un paio di osservazioni.
La prima: la chiesa di Sant’Agostino non solo presenta una ‘quantità’ considerevole di capolavori, ma offre un autentico cammino di fede: organico e completo. E rappresenta un felicissimo tentativo di annunciare il messaggio cristiano attraverso il mirabile linguaggio dell’arte cristiana, che qui s’incarna nello splendore di una vera e propria via pulchritudinis.
+ Francesco Lambiasi