Un paese di Calabria. Comincia così una storia riminese. È lunedì 5 novembre, e al cinema Tiberio si parla di migranti con la proiezione di Un paese di Calabria, film che racconta la storia del modello di accoglienza di Riace, un sistema che ha ridato vita ad un paesino famoso per i bronzi ripescati in mare, vittima di un inesorabile spopolamento. “Questo paese stava perdendo la propria identità”, dice ad un certo punto il sindaco Domenico Lucano – citato tra le 50 persone più influenti del pianeta secondo Fortune – “ma l’ha ritrovata”. Come? Con l’integrazione. Sì, il fenomeno che più ci spaventa proprio per la minaccia di cancellare la nostra identità, di soverchiare le nostre usanze con quelle di chi viene da fuori, può avere invece l’effetto contrario. L’accoglienza di Riace è diventata un modello. Un modello che è stato azzoppato.
Cosa accomuna Rimini e Riace? Una sala cinematografica piena fino all’inverosimile. File fuori, persone sedute per terra nei corridoi centrali e laterali, in piedi appoggiate ai muri, accalcate all’ingresso. Tutte presenti per partecipare, ascoltare e capire cosa sta accadendo, consapevoli che le migrazioni – che si sia a favore o contro – vengono inesorabilmente a contatto con le nostre vite.
E la partecipazione è esplosa alla fine del film. Prima con le testimonianze di chi coi migranti ci lavora, Luciano Marzi di Caritas, Sprar e la sindaca di Santarcangelo Alice Parma, che ha raccontato come i problemi di razzismo siano soprattutto problemi di quotidiana convivenza in cui di diverso c’è solo il colore della pelle (citando la signora napoletana che nel difendere un ragazzo pakistano ha detto all’aggressore: “Tu non sei razzista, sei str**”).
Poi è stata la volta del pubblico, che ha posto domande e riflessioni sul prossimo futuro. “Quando lo Sprar sarà mutilato e le persone ora accolte saranno in giro come clandestini per le città – ha detto un ragazzo – come ci comporteremo noi? Dovremmo fare una scelta personale. Li ospiteremo? Li aiuteremo anche se questo significherà andare contro la legge?” Poi la sala si è ammutolita davanti al racconto di un signore anziano: “Io ho ospitato e fatto lavorare ragazzi migranti. E mi sono sempre sentito rivolgere la domanda: perché lo fai? Questo è un problema che riguarda tutti. Dobbiamo sederci ad un tavolo e affrontarlo chiaramente. Non si può rimandare oltre”. La serata è stata organizzata dal gruppo Cantiere Città che si è presentato con questa domanda: come vogliamo le nostre città tra 30 anni? Sarà ora di cominciare a parlarne, perché le cose accadono anche senza il nostro intervento, e più tardi ci mettiamo mano, più faticoso sarà sistemarle.