Il 1931 fu un “anno antoniano” straordinario: infatti vi si commemorava il settimo centenario della morte di Sant’Antonio di Padova, universalmente conosciuto e venerato come “il Santo” per eccellenza. Anche Rimini fu coinvolta nelle celebrazioni per essere stata la protagonista di due dei suoi miracoli più celebri: quello dei pesci e quello della mula. Per l’occasione i luoghi di Rimini che secondo la tradizione erano stati il teatro di quei miracoli furono restaurati e decorati, e per entrambi il pittore riminese Gino Ravaioli – già ben noto in Romagna per i grandi dipinti murali eseguiti a Rimini e a Forlì e per le xilografie che ornavano alcune copertine de La Pié – fornì la sua opera d’artista. Ma il pittore, che era molto vicino ai Francescani e particolarmente devoto a Sant’Antonio, pensò bene di contribuire alle celebrazioni antoniane anche con un omaggio personale, ideando una nuova immagine sacra.
L’iconografia devozionale corrente del Santo lo raffigurava (come oggi, del resto) con in braccio il Bambino Gesù in un giardino pieno di gigli candidi: una specie di Madonna al maschile, romanticamente zuccherosa. Ravaioli pensò ad una immagine diversa, semplice e moderna, con il Santo raffigurato come un giovane eroe che trae dall’Alto l’ispirazione per la sua predicazione e per la sua azione. E realizzò una xilografia a quattro legni con Sant’Antonio a mezzo busto, estatico contro un cielo stellato e con un’aureola dorata perfettamente circolare. In alto mise il titolo in latino, in basso la data di morte e quella centenaria, nell’angolo sinistro un piccolo giglio stilizzato. Ne è risultata una immagine altamente suggestiva, che suggerisce l’idea di un mistico forte e ispirato.
La composizione e la figura, impaginate con rigorosa simmetria, sono davvero essenziali e nel solco, mi sembra, del più rigoroso “Novecento”. Il pittore doveva esserne soddisfatto, e senz’altro ottenne il plauso di padre Gregorio Giovanardi, un importante studioso del Francescanesimo riminese allora residente nel convento delle Grazie. Fu lui, probabilmente, a suggerire al pittore di divulgare l’immagine attraverso cartoline, che in quell’anno antoniano avrebbero potuto avere esito fortunato, e a consigliarlo di chiedere il consenso e l’appoggio dei superiori francescani per la loro diffusione.
Fu così che Ravaioli mandò una bozza della cartolina, realizzata dal tipografo riminese Sisto Neri, all’autorevole studioso francescano padre Vittorino Facchinetti, che aveva da poco pubblicato un grosso volume su Sant’Antonio e la sua iconografia (Milano 1925), ed un’altra al padre Damiano di Padova, che era a capo dell’organizzazione delle celebrazioni antoniane. Come risposta ne ebbe due cocenti bocciature.
Lei che è tanto bravo, gli rispose il primo, “potrebbe fare qualcosa di delizioso anche per S. Antonio. Si riprovi, dando al Santo maggiore dolcezza e meno rigidità: non bisogna dimenticarsi che anche se flagellò Ezzelino da Romano, il Taumaturgo di Padova era discepolo dello spirito del Serafico e palleggiò il Bambino divino” . Il secondo fu ancora più drastico nel suo giudizio: “Ho ricevuto la sua cartolina, e mi dispiace di doverle dire con franchezza che per me è orribile. Quell’icona non ha nulla del Divus Antonius e quindi è impossibile che ne faccia propaganda” . Evidentemente fra gli uomini di Chiesa e l’arte moderna, anche quella più moderata, si era già instaurata una grande diffidenza, anzi una rigida divaricazione, destinata a durare a lungo (e ancora).
Il mite Ravaioli certo non pensava di aver fatto una cosa tanto brutta e irriverente, ma subito interruppe la tiratura della xilografia, di cui conosco un solo esemplare superstite (in Gambalunga), e ordinò al tipografo di distruggere i cliché della cartolina, di cui conosco solo due prove di stampa, una uguale alla xilografia e una tenuta su toni di grigio (sono in una raccolta privata).
L’impresa dunque fu bruscamente interrotta, e non se ne parlò più. Il pittore si guardò bene, in seguito, dal riprendere il tema, forse per non dover raffigurare il delizioso “palleggiamento” auspicato da padre Vittorino. Ma aveva compreso perfettamente che quando si affrontano soggetti sacri non ci si può allontanare dalle forme consuete; e l’ha dimostrato ottimamente con il tradizionalissimo Sacro Cuore che l’anno dopo ha dipinto per la chiesa di Santa Croce, dove è tuttora esposto alla devozione dei fedeli, e nelle opere sacre eseguite successivamente.
Il Sant’Antonio “censurato” di Ravaioli comparirà nella mostra sul Taumaturgo di Padova nell’arte riminese in programma a Castel Sismondo nel prossimo settembre, in occasione della seconda edizione del Festival Francescano.
Pier Giorgio Pasini