“Sono solo uno scarabocchio di Dio”. Così don Oreste ribatteva a chi gli evidenziava la sua santità. Il sacerdote dalla “tonaca lisa”, ad un anno dal suo ritorno alla casa del Padre, è ancora vivo e presente a chi gli ha voluto bene e la Comunità Papa Giovanni XXIII gli ha dedicato una settimana di immagini, di pensieri e di parole per ricordarlo.
Tra i vari appuntamenti c’è stata la presentazione del libro, edizioni San Paolo, “Don Oreste Benzi, un infaticabile apostolo della carità”, così come lo aveva definito Papa Benedetto XVI. Un’iniziativa che si è svolta in Sala Manzoni, venerdì 31 ottobre, attraverso riflessioni e testimonianze, ed ha messo in luce come ci sia ancora tanto da scoprire su questo sacerdote innamorato di Cristo e della Chiesa.
“Dio, in don Oreste, si è rivelato pienamente – ottolinea Valerio Lessi, giornalista e autore della pubblicazione -. Il mistero buono di Dio si è manifestato in questo sacerdote sorridente, sempre accogliente, così nasce l’esigenza di conoscerlo nei “particolari” e il mio libro è un primo contributo in questa ricerca”.
Il cammino di don Oreste, protagonista di una rivoluzione silenziosa, ha una svolta determinante in quel lontano ’68 in cui nasce la Comunità Papa Giovanni XXIII e si svolge il primo campeggio sulle Dolomiti con i ragazzi disabili. Da allora lo troviamo impegnato con i ragazzi tossicodipendenti, con i barboni, con chi non ha speranze… sempre in movimento, ben visibile nei suoi abiti di sacerdote.
“Doveva ricordare il Mistero anche quando andava in discoteca tra i giovani ed essi avevano il “diritto” di incontrare il Mistero vedendo in lui il prete – ricorda Lucia Bellaspiga, inviata di Avvenire. Il suo incontro con le persone emarginate si concludeva sempre con la domanda “vuoi pregare con me?”. Noi giornalisti lo consideravamo un po’ ingenuo e sognatore, invece era un sacerdote coraggioso; quanto ha fatto lo testimonia, e non era un “bonaccione”, ma un uomo buono.
La casa-famiglia è stata la sua intuizione più grande (200 case famiglia in 26 nazioni). La famiglia era il recupero della condizione naturale di ogni essere umano e le sue case famiglia “funzionano”, a differenza di molte altre sostenute dalle istituzioni pubbliche, perché in esse si può sperimentare l’amore tra le persone.
Sapeva valorizzare le caratteristiche di ognuno e per lui il “bello” era presente anche nel peggiore criminale”.
Don Oreste incontrava allo stesso modo ogni persona, fosse una prostituta o un politico, un prelato o un tossicodipendente, e l’incontro non era mai banale.
“Come Madre Teresa di Calcutta dove “guardava vedeva”. Applico al genio di carità che era don Oreste questa stessa virtù – riprende Luigi Accattoli, vaticanista del Corriere della Sera -. Lui vedeva nel povero, nel bisognoso, nell’emarginato, dove altri non vedevano, la dignità umana e l’uomo come immagine di Dio. E se si accorgeva di un movimento di riscatto in questa persona, esultava, perché in quell’inizio di redenzione vedeva un segno per il futuro dell’umanità.
Lui “vede” la coppia che è tentata di abortire e trova le parole per fermarla; lui può scorgere un essere umano consapevole e degno di attenzione in quella donna che ripetutamente va in ospedale per abortire e lui, ogni volta, corre per scongiurarla di non farlo finché riesce nel suo intento.
Lo sguardo per cogliere l’uomo, il povero… gli veniva dal Vangelo”.
Un sacerdote testardo, qualche volta “fuori dalle righe”, innamorato della Chiesa, che considerava un privilegio il suo sacerdozio.
Dobbiamo stare attenti ad una lettura “buonista” di don Oreste e questo vale per ogni santo – precisa Monsignor Francesco Lambiasi, Vescovo della Diocesi di Rimini -. Noi possiamo fare una lettura agiografica, che si deve fare, ma essa comporta un grave rischio che don Oreste chiamava “devozione”, dove il santo diventa un “santino”, un eroe bello e impossibile da imitare, da sfruttare nei casi disperati (per cui “mi deve fare la grazia”). La lettura invece è quella della “rivoluzione” che Cristo ha voluto portare nella nostra società attraverso il messaggio e l’opera di don Oreste. Attenzione, quindi, a non dolcificare il sale del Vangelo.
Il carisma di don Oreste si potrebbe così sintetizzare: dobbiamo vedere Cristo nel povero e vedere il povero con la luce di Cristo.
Egli ha vissuto per i poveri, da povero e con i poveri. Questo “fiume di carità” era alimentato da due affluenti. Il primo è l’amore per Cristo, non è mai stato un facchino di Cristo, ma un innamorato. Il secondo è la Chiesa concreta, il suo amore per essa e per i suoi pastori con cui aveva un rapporto bellissimo, di confidenza e anche di estrema obbedienza. Di fronte alle scelte più coraggiose, di “frontiera”, egli diceva che l’ultima parola spettava ai pastori del discernimento perché sapeva che essi sono giudicati su una virtù, non molto popolare, che è la prudenza”.
Riscopriamo i “frutti” che don Oreste ci ha lasciato nella sua Comunità, nelle “sorelline” e nei “fratellini” che egli amava, la cui gioia era la sua gioia.
“È il tempo della Comunità, della responsabilità, della dignità battesimale del cristiano. Don Oreste ci ha trasmesso questo – afferma Giovanni Paolo Ramonda, responsabile generale della Comunità -. La Papa Giovanni XXIII, oggi nella Chiesa, ha il compito di fare splendere la bellezza di vivere il Vangelo nella quotidianità. Non solo per i consacrati e per i sacerdoti, ma per tutti. Il Vangelo è accessibile a tutti gli uomini. Un Vangelo che è popolo di Dio: un’unica famiglia spirituale che diventa segno, fermento e lievito.
Don Oreste era innamorato del suo sacerdozio e per questo ci ha fatto innamorare della nostra vocazione. La Comunità vuole dare il suo contributo alla storia. I poveri sono nostri maestri, con loro vogliamo vivere e morire. Essere familiari con i “piccoli” per noi è un grande dono. Don Oreste ci ha insegnato che l’amore senza sofferenza è una barzelletta, se non siamo capaci di soffrire per quelli che amiamo non siamo credibili. Ci ha portati ad essere una comunità che, con i nostri limiti, vuole passare dall’assistenza alla condivisione e vogliamo incontrare i “piccoli” e i “poveri” là dove sono. La Comunità Papa Giovanni XXIII lavora sodo per dare dignità ai propri figli e per ridistribuire i beni a favore dei poveri. Lui ci ha passato questo testimone: siate innamorati di Cristo”.
Francesco Perez