Ora che il clamore e lo sdegno suscitati dalla tragica vicenda del piccolo Alfie Evans paiono placati, è opportuno fermarsi un istante a considerare quali insegnamenti e quale messaggio è possibile trarne. I fatti sono arcinoti. La malattia neurodegenerativa che aveva colpito fin dalla nascita il “piccolo gladiatore” non lasciava speranza alcuna. Si sapeva altresì che, per interessamento di papa Francesco e del governo italiano, l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma si era offerto di accogliere, fin dall’estate 2017 (e non già negli ultimi giorni, come pure è stato scritto), il piccolo Alfie per assicurargli, a spese proprie, quanto necessario per tenerlo in vita, secondo la volontà esplicitamente espressa dai genitori. Eppure, la Magistratura inglese, su richiesta e sollecitazione dei medici dell’Alder Hey Children Hospital, ha deciso di staccare la spina del ventilatore meccanico: dopo cinque giorni Alfie ha lasciato questo mondo. Come darsi conto di quanto accaduto? Tre punti specifici meritano attenzione.
Primo. Secondo l’ordinamento giuridico inglese sono i magistrati, non i genitori, a decidere cosa debba intendersi per “il miglior interesse” del minore. Si tratta di un principio che risale al XVII secolo quando, sull’onda del neonato contrattualismo hobbesiano, trova accoglienza la tesi secondo cui la responsabilità per la cura e tutela dei minori ricade in parti uguali sia sui genitori sia sul sovrano che agisce nella veste di parens patriae (genitore della patria). Ora il giudice del caso in questione, sentenziando che continuare il trattamento non sarebbe stato “nel migliore interesse di Alfie”, che “date le circostanze non sarebbe stato legale che il trattamento continuasse”, non ha rispettato la condizione di paretiticità. Perché mai il peso dell’opinione del giudice è stato valutato superiore a quello dell’opinione espressa dai genitori?
Secondo. Il tribunale è intervenuto per tutelare “il miglior interesse di Alfie”. Si noti, non si è detto “per il bene di Alfie”. Il termine interesse appartiene al lessico dell’etica utilitarista, così come questa venne formulata da Jeremy Bentham nel 1789. Come si sa, è l’utilitarismo il pilastro portante della matrice culturale inglese, un pilastro che, per sua natura, è antipaternalistico: solo l’individuo può decidere cosa sia nel (o valga per il) proprio interesse. Nel caso di specie, l’individuo Alfie è rappresentato, in via tuzioristica, dai suoi genitori. Siamo così di fronte ad una patente contraddizione pragmatica: non si può essere utilitaristi e paternalisti al tempo stesso. I genitori di Alfie sono stati privati di un loro diritto fondamentale, quello della responsabilità genitoriale. Si rilegga con attenzione l’improvvida dichiarazione del premier Theresa May rilasciata il 30 aprile scorso nel corso della sua visita ad una scuola di Manchester. “È una grande tragedia la morte di un bambino…”, ma – ha proseguito – “è importante che le decisioni sull’assistenza medica vitale ai bambini e a chiunque altro sia presa dai clinici, da coloro che hanno competenza in materia”. È sconcertante che nel paese che per primo ha introdotto l’habeas corpus si venga ad affermare che la decisione – non già la proposta o almeno la codecisione – sulla vita di un essere umano debba dipendere unicamente dal criterio di competenza scientifica dei medici. Non v’è bisogno di essere esperti di epistemologia per cogliere l’assurdità di una posizione del genere.
Terzo. Come il lungo dibattito che ha condotto all’approvazione nel nostro Parlamento della DAT ha posto in chiara luce, è alla persona che si riconosce il diritto di scegliere le cure e di rifiutare l’accanimento terapeutico. Eppure, nel caso in questione hanno deciso i giudici, contro la volontà dei genitori. Mi ha stupito la presa di posizione di non pochi commentatori italiani, i quali non si sono resi conto che se la logica inglese venisse trasferita, senza scarto, all’Italia, la recente legge sulla DAT risulterebbe di fatto vanificata! Osservo che se non è accettabile che i medici vengano costretti a somministrare al malato cure su cui non concordano, è del pari inaccettabile che al malato (o a chi per lui) non venga riconosciuto il diritto di cercare altri luoghi dove ricevere altri trattamenti. (Nel caso di specie, come sopra ricordato, l’Ospedale Bambino Gesù si era offerto di prendersi cura di Alfie a titolo completamente gratuito. Perché allora opporsi?).
Alla luce di quanto precede, come dare senso alla decisione scaturita dall’alleanza medici-giudici? Una risposta che reputo plausibile è la seguente. Al pari di ogni altro Servizio Sanitario Nazionale, anche quello inglese sta soffrendo per la scarsità delle risorse finanziarie. Non c’è da stupirsi. Basta considerare che la forbice tra costi e ricavi, in sanità, è destinata ad allargarsi con l’andare del tempo – e ciò a prescindere dai ben noti fenomeni di corruzione e di mismanagement. È dunque ineludibile il problema della prioritarizzazione nel processo di allocazione dei fondi ai diversi capitoli di spesa sanitaria. Ebbene, il criterio che nella pratica viene adottato – anche se ufficialmente denegato – è quello dei QALYs (Quality Adjusted Life Years). È questo un criterio – per la prima volta applicato negli USA negli anni Ottanta del secolo scorso – di derivazione dall’utilitarismo classico, il cui principio generale suona: “Agisci in modo da soddisfare al maggior grado gli interessi del maggior numero di individui coinvolti nella tua azione”. Poiché il fine da perseguire è la massimizzazione della somma degli anni di vita dei cittadini, aggiustati per la qualità, si dovranno allocare, in via prioritaria, risorse per la cura a quei pazienti da cui ci si attende il più alto numero di QALYs. Chiaramente, un malato terminale ha un numero di QALYs molto basso e dunque non è lecito – per l’etica utilitarista – dedicargli risorse che potrebbero invece essere destinate ad altre categorie di pazienti. Donde la conclusione accolta e favorita dalla più parte di medici inglesi secondo cui non si deve prolungare l’agonia somministrando cure sproporzionate e perciò inutili, vale a dire non generatrici di utilità.
Siccome la questione è seria e non può essere banalizzata, come purtroppo si tende a fare, con vuote affermazioni di principio o con vaghi richiami all’emotivismo, la domanda che sorge spontanea è: che fare, considerato che il numero di casi come quello di Alfie è destinato a crescere nel tempo? La proposta che avanzo, senza però poterla qui argomentare, è quella di dare vita alla creazione di un fondo pubblico speciale, finanziato con una tassa di scopo, dal quale attingere le risorse necessarie per far fronte a situazioni come quella di cui qui si parla. L’idea, in sostanza, è quella di fornire una via d’uscita all’emergenza di una particolare “scelta tragica” nel senso di G. Calabresi e P. Bobbitt (1986): come affrontare il problema economico della distribuzione di risorse scarse mediante l’attribuzione della titolarità del diritto – nel nostro caso, il diritto di decisione – a taluni soggetti e non ad altri. (Per gli autori citati, tragica è la scelta “che riguarda la vita o la morte o altri beni personali vitali… dove politiche alternative tecnicamente possibili avranno l’affetto di distribuire questi beni in differenti quantità e/o in modo diverso tra i destinatari”. Si badi che il celebre criterio di Pareto, così caro agli economisti, non è utilizzabile in contesti di scelte tragiche). Sarebbe questo anche un modo concreto per concorrere a contrastare la nefasta deriva del dirittismo, di quella concezione socio-politica tipica della post-modernità che riconosce solo diritti in capo alle persone e non anche doveri di cittadinanza, espressione questi ultimi di quella solidarietà che, sola, può scongiurare il rischio del collasso.
Stefano Zamagni
membro della Pontificia Accademia delle Scienze