Calcio, calcio, calcio…”
È la litania gioiosa con cui ti accoglie. Cauã ha 14 anni, ma ne dimostra molti meno. È un bimbo brasiliano (non poteva essere altrimenti, visto il saluto). Ha un ritardo grave dovuto ad una malattia genetica. È inserito in seconda nella scuola media di Coriano.
“Cauã è il nostro figlio del cuore. Diciamo così in Brasile, quando un bimbo viene adottato”. Il papà Vincenzo, 66 anni, italiano, è testimone insieme alla moglie Rosicler, 58 anni, lei brasiliana, all’iniziativa “Braccia accoglienti” che due volte all’anno si tiene a San Lorenzo in Correggiano per tutti i bambini dei gruppi di catechismo e per i loro genitori. Partecipiamo all’incontro con il gruppo di IV elementare, proprio quello che ha accolto due mesi fa Cauã.
“Lui non ha conosciuto i suoi genitori nella carne, non è nato nella mia pancia – dice Rosicler, che ha lasciato il suo lavoro di giudice in Brasile – ma nel mio cuore. Noi lo amiamo e gli abbiamo dato una famiglia perché i suoi non hanno potuto dargliela e lui ne aveva bisogno”.
“Ha 14 anni, ma è molto più piccolo. Parla poco italiano, poco portoghese, in realtà quasi non parla, – dice Vincenzo – ma voi vi capite con lui. Lui gioca con voi, partecipa con voi alla catechesi, viene a messa e un po’ disturba (magari anche il prete all’altare), ma questo non è un problema. Giusto?”.
Siiiiii, è il coro unanime degli amici del gruppo: “A lui piace il calcio” dice un bambino. “Già, lui chiama tutto calcio, basta che ci sia una palla tonda ed è felice. E so che con la palla è il linguaggio con cui vi siete capiti. A lui piace molto giocare con gli altri bambini. Impara tanto. Stare con le altre persone lo stimola, lo aiuta a capire le difficoltà e a cercare di superarsi e così migliorare nella sua autonomia”.
Vincenzo e Rosicler hanno due figlie grandi, una sposata con due figli, uno di 12 anni ed uno di 1 anno. Perché avete scelto di prendere un bambino?
“Difficile dire il perché. – risponde Marie Claire – Il nostro nipote era spesso con noi e ci sentivamo ancora in forze per dare la famiglia a qualcuno che non ce l’aveva. Così abbiamo fatto tutti i corsi e i documenti necessari. Poiché non siamo più giovani ci siamo detti pronti per accogliere due fratellini, per i quali, di solito, c’è minore disponibilità. Mentre attendevamo ci ha telefonato Paola, una mia amica, anche lei giudice, Mi dice: ‘Ho proprio davanti a me un bambino di quasi 5 anni che può essere adottato subito’. Le rispondo: ‘Ma siamo in parola per due’. ‘Tranquilla, questo ti darà lavoro per due, lui è diversamente abile’.”
Vincenzo, quando avete visto il bambino avete avuto dei dubbi? Chiede una catechista.
“Io non ho avuto nessun dubbio, perché un figlio non si sceglie. Quando siamo nati non conoscevamo la nostra famiglia, i nostri genitori non ci conoscevano. Ci hanno accolti per come siamo: maschi o femmine, con gli occhi neri o azzurri, con i capelli mori o castani… È assurdo andare in un orfanatrofio e scegliere un bambino. A noi veniva chiesto di adottarlo, con i suoi pregi e i suoi difetti”.
Si ferma un attimo, poi riprende. “In realtà Rosicler ha vissuto un momento di difficoltà, perché ha pensato al futuro. E per qualche notte non ha dormito tanto. È un problema reale perché Cauã avrà sempre bisogno di qualcuno che gli sia accanto, forse mai sarà completamente autonomo. Allora giustamente si chiedeva: ‘Abbiamo il diritto noi di mettere questo impegno sulle spalle di altri quando non ci saremo più?’
Ma il Signore che ha trovato noi per lui, non lo lascerà solo. Le nostre figlie poi lo hanno accolto come un fratello più piccolo, più fragile e gli vogliono bene come noi. Noi oggi stiamo facendo il possibile per stimolarlo nella sua autonomia, per sviluppare tutte le sue potenzialità”.
Ma perché siete venuti a vivere in Italia?
“Lo abbiamo scelto prima per un anno e in questo tempo abbiamo fatto tutti gli esami clinici per determinare bene la sua malattia genetica e vedere se ci sono terapie che lo aiutino. Ora abbiamo confermato la nostra presenza qui per altri due anni. I motivi sono due. Il primo è di essere più vicini alle nostre figlie. Una si è fermata a Milano dopo il master all’Università e l’altra ha sposato uno svizzero e vive a Zurigo con i due figli. Ma il secondo motivo è la scuola per Cauã. In Brasile le scuole non sono ancora preparate per favorire l’inclusione dei diversamente abili, mentre in Italia è possibile un buon, un ottimo, inserimento scolastico accanto a bambini normali e questo stimola molto più la crescita. Per questo forse rimarremo sempre qui. Per lui”.
Se dovessi definire Cauã che parole useresti?
“È dolce, affettuoso, non litiga mai, non dice parole brutte. Vuole sempre giocare a calcio. Così anche quando pioviggina, come in questi giorni, devo uscire a giocare con lui. Noi lo amiamo e lui ci ama”.
A proposito cosa significa in brasiliano il suo nome?
“Cauã è un nome di origine indigena e significa falco”.