Maria (nome di fantasia), non ti guarda quasi mai negli occhi, è troppo abituata a nascondersi. Più di 20 anni fa è stata strappata dalla sua terra, la Calabria, da un piccolo paesino in provincia di Crotone, e portata in una località segreta su al Nord, perché lei e tutta la sua famiglia, all’inizio degli anni ’90, ci hanno messo la faccia e testimoniato contro gli assassini del fratello, ammazzato in una sanguinosa faida tra famiglie calabresi iniziata negli anni ’80.
I responsabili sono stati tutti condannati e stanno scontando l’ergastolo, ma per lei e la sua famiglia, da quel momento, è iniziata una vita d’inferno. Quella di Maria è stata la prima famiglia in Italia sottoposta al programma di protezione.
“In Calabria – ci racconta – chi tradisce paga. In paese ci odiavano tutti, molti di quelli che noi credevamo amici ci hanno tolto il saluto. Al Nord speravamo di trovare lo Stato, ma non c’era. Ci siamo accorti di quanto fosse inefficace il programma di protezione testimoni: non ti dà la possibilità di lavorare, d’inserirti in un nuovo contesto, lavorativo e sociale. Viviamo come fantasmi”.
Oggi, dopo più di 20 anni, Maria cerca ancora l’aiuto dello Stato con un appello al Ministro Angelino Alfano. “Chiediamo di essere ricevuti e di rivedere tutti i casi di testimoni. Da troppi anni siamo abbandonati. Ma noi abbiamo dato tutto per la giustizia, ed in cambio? Abbiamo perso tutto, persino il nostro nome. La ‘Ndrangheta voleva ucciderci perché abbiamo sfidato il muro di omertà. Noi in Calabria abbiamo fatto questa scelta per senso civico, per aiutare la nostra terra e per non vedere più i nostri fratelli, i nostri figli i nostri cari, morire ammazzati per strada. Nemmeno i carabinieri riuscivano ad indagare perché avevano paura. Le nostre sono state testimonianze utili, perché i mafiosi che abbiamo denunciato sono tutti in carcere a vita. Se il programma di protezione funzionasse veramente, ci sarebbero molte più persone come me, come noi, e la ‘Ndrangheta sarebbe già stata stroncata in Calabria”.
Lucia Renati