«In principio era il verbo». Ma in Bros – contrazione di brothers, ossia fratelli – non c’è quasi posto per le parole. L’unico a pronunciarle, in una lingua incomprensibile anche se al pubblico viene fornito il foglio con la traduzione, è un vecchio in tunica bianca che si appoggia a un lungo bastone ricurvo: lo ieratico attore rumeno Valer Dellakeza. Sono i versetti delle Lamentazioni di Geremia ma, come succede a ogni profeta, chi parla non viene preso in considerazione e, anzi, finisce dimenticato in un letto.
Per rappresentare in modo metaforico una società dove vige ormai una completa omologazione dei comportamenti, e dove sono spariti il discernimento critico individuale e qualsiasi forma di autonomia del pensiero, Romeo Castellucci ha scelto un gruppo di figuranti presi dalla strada (tranne un paio di attori professionisti): eseguono fedelmente quanto hanno sottoscritto in un accordo, con cui s’impegnano a rispettare ordini impartiti mediante auricolari. La scelta d’indossare l’uniforme da poliziotti, poi, non appare casuale: è la società stessa ad aver affidato ai corpi di polizia la liceità di esercitare la violenza.
Teleguidati, si sottomettono ciecamente ai diktat, appiattendosi in atteggiamenti ripetitivi attraverso una gestualità automatica, dove è possibile vedere riflessi molti comportamenti odierni: a cominciare dal narcisismo autoreferenziale – qui evidenziato non da banali selfie ma da scatti in posa vecchio stile, con le sorgenti luminose schermate dagli ombrelli – per proseguire nella ricerca continua di nuovi idoli. Prevalgono i comportamenti imitativi, senza alcuna riflessione preventiva, come succede a chi si adegua supinamente alle mode: lo sottolinea la gigantografia di una scimmia, epitome di tutte le emulazioni e, al tempo stesso, termometro di un’evoluzione umana di segno contrario. Se sono atteggiamenti già negativi per un singolo, applicati a un insieme di persone assumono contorni inquietanti, che portano alla deflagrazione di una latente violenza: ogni membro del gruppo si accanisce così su un uomo nudo e indifeso, fino ad annientarlo a colpi di manganello. Dopo il pestaggio, la vittima esprime il suo lamento con i vagiti di un neonato: qualcosa che va al di là della regressione emotiva, insinuando il dubbio che, fin dalle origini, non si possa sfuggire dall’essere vittime o carnefici.
Con le sue ampie proporzioni, il palcoscenico delle Muse si è rivelata uno spazio perfetto per Bros: spettacolo inserito nella programmazione anconetana curata da Marche Teatro, che ha la lungimiranza di proporre regolarmente al pubblico degli abbonati compagnie di ricerca dal rilievo internazionale (come è stato per Peeping Tom e Hofesh Schechter). La spoglia cornice delle Muse esalta la visualità di Castellucci: lucida e spietata, costruita su immagini che trascendono il presente, senza una dimensione temporale troppo connotata. Scott Gibbons, abituale collaboratore musicale del regista cesenate, crea sonorità ossessive, enfatizzando attraverso l’amplificazione i rumori degli spari e delle manganellate, fino al parossismo. Suoni che procurano allo spettatore un forte disagio fisico, specchio di quello esistenziale quando ci si trova davanti alla violenza.
A scandire una sorta di drammaturgia dei comportamenti vengono esibite gigantesche fotografie: tra queste, il ritratto di Samuel Beckett riconduce alla dimensione teatrale, che si riaffaccia nel finale. Dall’alto cala un tendaggio arrotolato e con semplici gesti – forse l’immagine più bella dell’intero spettacolo – si trasforma in un sipario su cui campeggia la scritta De pullo et ovo (del pulcino e dell’uovo). Dietro, s’intravedono le gambe di un bambino: viene vestito di bianco, qualcuno gli consegna un manganello, che lui impugna prima di sparire, inghiottito dal gruppo. L’immagine non lascia troppe speranze, anche se la candida veste richiama quella dell’inascoltato profeta. E indirettamente la funzione stessa del teatro.
Giulia Vannoni