Il 9 marzo ricorre un drammatico anniversario: un anno dall’inizio della pandemia in Italia. Una ricorrenza che, volenti o nolenti, porta a dover fare un bilancio. Qual è la situazione della popolazione dal punto di vista dell’equilibrio e della salute mentale? Parla il dottor Fabio Santarini, psichiatra del Centro di Salute Mentale di Rimini
Nove marzo 2020, una data che è già impressa nella storia del nostro Paese. È il giorno in cui l’Italia è entrata nel suo lockdown nazionale. E, di conseguenza, è la data che convenzionalmente indica l’inizio della più grande emergenza nazionale da quando esiste la Repubblica: l’arrivo del Covid-19 e lo scoppio di una pandemia che da lì a poco sarebbe diventata globale. Proprio in questi giorni, ricorre il primo anniversario di questo drammatico capitolo che, purtroppo, non si è ancora concluso. Un anniversario, volente o nolente, porta con sé la necessità di fare un bilancio, per capire da dove si è partiti e dove si è arrivati. Non dal punto di vista dei numeri dei morti, dei contagiati e dei guariti, quello ci è già abbondantemente comunicato ogni giorno da tutti i mezzi di informazione. Ma dal punto di vista dell’impatto sul nostro essere umani, sulla nostra psiche, sulla nostra salute e il nostro equilibrio mentale. Qual è la situazione attuale e in che condizioni saremo quando tutto questo finirà? Risponde a queste domande, facendo un riepilogo di questi 12 mesi di pandemia, il dottor Fabio Santarini, medico psichiatra riminese, responsabile della struttura semplice emergenza-urgenza del Centro di Salute Mentale di Rimini.
Dottor Santarini, partiamo esattamente da un anno fa. L’inizio.
“Il Covid-19, come reale problema sia da un punto di vista clinico sia economico e sociale, è arrivato ufficialmente sul nostro territorio agli inizi di marzo dell’anno scorso, con l’ormai famoso lockdown che sarebbe poi durato per tutta la primavera. Un lockdown nazionale che, parlando della situazione dal punto di vista della psichiatria, all’inizio non ebbe quasi nessun impatto”.
Davvero? Si spieghi.
“Nel periodo del cosiddetto ‘lockdown duro’, la maggior parte del personale della psichiatria sul territorio, almeno fino a Pasqua, si è trovato quasi in una situazione di vacanza. Uso il termine ‘vacanza’, ovviamente, per semplificare, la situazione era certamente complessa anche per noi. In quel momento, però, l’onda di piena dell’arrivo del virus ha colpito maggiormente i reparti di malattie infettive, la medicina d’urgenza e, ovviamente, i reparti Covid.
L’impatto dal punto di vista psichiatrico era ancora molto contenuto. I primi segnali di un peggioramento della situazione da quel punto di vista sono arrivati subito dopo Pasqua, ai primi di aprile”.
Cos’è successo?
“Abbiamo cominciato a riscontrare alcune problematiche con la primissima riapertura, seppur parziale: diverse persone hanno cominciato a vivere l’incertezza, e una certa paura, a ricominciare a uscire di casa, dopo quasi due mesi di totale chiusura fra le quattro mura domestiche. In quel frangente dell’emergenza, infatti, la casa è stata percepita, ed era diventata di fatto, un rifugio, l’area di sicurezza contro l’indefinito, l’imprevedibile pericolo del mondo esterno. Ma fu solo un’avvisaglia, perché con l’arrivo dell’estate e il crollo dei contagi, si è tornati a una situazione di sostanziale normalità. Il virus, la minaccia, il pericolo era ancora tra noi, ma la stagione estiva ne ha fatto crollare la percezione collettiva, tanto da riassaporare una parvenza di serenità.
Come se l’incubo fosse finito. Ed è proprio questo che ha consentito che il colpo successivo fosse così forte, così drammatico”.
Si riferisce all’arrivo della seconda ondata, in autunno.
“Con l’arrivo dell’autunno e della cosiddetta seconda ondata, c’è stato l’impatto peggiore, ed è stato in quel periodo che abbiamo registrato un significativo aumento delle attività in ambito psichiatrico.
Questo perché? Perché in tutte le malattie, e soprattutto nelle epidemie, la ricaduta, a prescindere che sia grave sul piano oggettivo o meno, porta sempre con sè l’idea di inguaribilità e di incapacità a venirne fuori. In quel momento, tutte le sensazioni di paura e di ansia provocate dall’arrivo del virus, non erano più solamente rivolte alla sua concreta pericolosità, ma hanno cominciato ad accompagnarsi alla paura per il futuro, in senso più ampio, che abbraccia la sicurezza del proprio lavoro, la stabilità economica, ecc. Questo ha portato a un incremento dei casi di patologie psichiatriche. E, purtroppo, di suicidi”.
Parlando di questo, qual è stata la situazione a Rimini dal punto di vista dei suicidi negli ultimi mesi?
“C’è stato sicuramente un aumento. E sono emblematici alcuni casi di persone che avevano preso appuntamento da noi, e si sono tolte la vita pochi giorni prima della visita. Segno di una situazione estremamente drammatica. L’aumento c’è, ed è sensibile. Va però detto che la psichiatria è una branca della medicina molto particolare: mentre nelle altre discipline ci sono specifici e precisi esami strumentali che restringono l’area della patologia per individuarla in modo pressoché univoco (una gamba è rotta o non è rotta, un tumore c’è o non c’è, per intenderci), in psichiatria, invece, le patologie sono di natura comportamentale-ambientale, molto complesse da individuare, anche nelle loro cause. Per quanto riguarda i suicidi, dunque, sicuramente il Covid ha contribuito all’aumento, ma è difficile stabilire che ne sia la causa unica e scatenante”.
Arriviamo a oggi.
“Oggi possiamo dire che dal punto di vista psichiatrico, il Covid ha portato con sé due tipi di effetti sulle persone: prevedibili e imprevedibili. Partiamo da quelli prevedibili.
La paura del Covid è dovuta alle sue caratteristiche: è una malattia che non solo può ucciderti, ma ti fa morire in modo terribile, asfissiato e, soprattutto, in totale solitudine. E non solo: il Covid produce in noi la preoccupazione di una malattia insinuante, perché è molto facile contagiarsi, in qualsiasi momento della propria quotidianità. Tutto questo ha portato a un prevedibile aumento delle patologie legate alla sfera affettiva: depressione, disturbi di adattamento (reazioni ansiose-depressive a eventi di vita), disturbi d’ansia, ipocondria e disturbi ossessivo-compulsivi. Tutte forme di difesa contro la paura della morte, per questo prevedibili”.
E per quanto riguarda gli effetti imprevedibili? A cosa si riferisce?
“Sono tutti quegli effetti legati all’improvviso cambio dello stile di vita, portato dalle misure di sicurezza anti-contagio. Mi riferisco soprattutto ai periodi prolungati passati chiusi in casa: stare in casa, con l’idea di non poter uscire, ha un impatto per nulla banale.
Occorre una grande capacità di stare bene con se stessi e con chi ci è vicino. E possono crearsi situazioni molto complicate: pensiamo a case piccole con famiglie numerose, improvvisamente costrette a convivere per tempo indefinito, lavorando e studiando da casa. Situazioni che hanno portato in molti
casi all’inasprirsi dei rapporti, soprattutto di coppia: può sembrare strano, ma il Covid ha costretto molte coppie a passare tanto tempo insieme e parlarsi, portando spesso all’incrinarsi delle relazioni.
Insomma, si tratta di una serie di conseguenze comportamentali e relazionali dovute a un evento senza precedenti, che erano, proprio per questo, difficili da prevedere, ma che ci troviamo ad affrontare”.
Abbiamo fatto un lungo riepilogo di ciò che è stato. Occorre, però, anche guardare a ciò che sarà. In che situazione ci troveremo, secondo lei, quando la pandemia finalmente finirà?
”L’elemento che più di tutti caratterizza la paura di questo virus è il fatto di essere strisciante. È sullo sfondo, possiamo minimizzarla o fingere di non provarla, ma è sempre presente, volenti o nolenti. Questo ci ha inevitabilmente segnato, quindi credo che quando tutto questo finirà, perché finirà, certe abitudini rimarranno. Alcune utili, come ad esempio l’ampio utilizzo dei disinfettanti, ma altre abbastanza tristi: penso, ad esempio, alle difficoltà nelle manifestazioni fisiche di affetto, come l’abbracciarsi. Si tratterà, dunque, di tornare a una nuova normalità, che è pur sempre normalità. Allo stesso tempo, però, tutto questo potrà anche rappresentare un’opportunità di crescita, se saremo in grado di riconoscerla: gli esseri umani avanzano sempre per crisi, per emergenze e difficoltà, ed è attraverso di esse che ci siamo evoluti e ci siamo rafforzati. Il mio augurio, dunque, è che possiamo uscire tutti da questa esperienza meglio di come ci siamo entrati, da un punto di vista della consapevolezza: il fatto di aver sofferto deve renderci più attenti, più responsabili e più sensibili alle sofferenze altrui. Mi auguro che si sviluppi la coscienza che nessuno di noi è eterno o immune ai problemi, e che quindi anche gli altri hanno diritto di averne. Se questo avverrà, l’esperienza della pandemia, almeno da questa prospettiva, potrà essere vista come opportunità di crescita e miglioramento collettivo”.