Aperta a Jesi la stagione lirica con un dittico opera e danza che abbina il compositore napoletano Giuseppe Vignola a Stravinskij
JESI, 17 ottobre 2020 – Una tradizione capovolta. Se nel settecento i siparietti comici venivano inseriti fra un atto e l’altro di tante opera serie, questa volta è l’‘intermezzo buffo’ a fornire la struttura portante dello spettacolo. Del resto siamo a Jesi: non una località qualsiasi, ma la città natale di Pergolesi, autore della Serva padrona, il più famoso degli intermezzi, quello che ha cambiato radicalmente la storia del melodramma.
La serata inaugurale della stagione lirica, infatti, ruotava attorno ai tre quadri di Lesbina e Milo: musica di Giuseppe Vignola (libretto, pieno di spiritosi doppi sensi, di Carlo De Pretis), napoletano per origini e formazione, specializzatosi in scene buffe, che concepì questo intermezzo nel 1707 per la rappresentazione a Napoli della Fede tradita e vendicata, un’opera seria di Francesco Gasparini.
Alla radice ci sono le schermaglie amorose tra i due protagonisti: Milo che, fin dal nome, sembra ricalcato sul cliché del miles gloriosus, ereditato dalla commedia dell’arte, e Lesbina, l’ennesima servetta che si atteggia a smorfiosa. Pur senza essere un capolavoro, offre un’istantanea dell’elevato standard musicale di quegli anni, proiettandoci in quel fertilissimo terreno che darà origine a tanti indimenticabili gioielli.
Rigorosamente senza intervalli, come oggi prescrivono le norme anticovid, pure lo spettacolo jesino offre un montaggio che prevede l’inserimento di altri pezzi musicali, a cominciare dalla lunga pagina introduttiva che assurge ad autonomo prologo della serata: quella Suite italienne per violoncello e pianoforte (1932) in cui Stravinskij rielabora il suo precedente balletto Pulcinella, dove aveva metabolizzato in modo mirabile le reminiscenze di Pergolesi e della civiltà musicale partenopea in genere.
Gli altri brani strumentali inseriti fra le pieghe dell’intermezzo, di Nicola Fiorenza e del ben più celebre Nicola Porpora, avevano invece autentica matrice napoletana e risalivano, all’incirca, al medesimo periodo storico di Vignola: anche se il confronto ravvicinato con l’ineguagliabile settecento “mentale” di Stravinskij non ha giocato a favore di quello “reale” degli altri compositori. Tanto più che a contrappuntare le note di Suite italienne – qui affidate al violoncellista Riccardo Pes e al pianista Andrea Boscutti – erano i due bravissimi danzatori Sasha Riva e Simone Repele, che con la plasticità dei loro corpi hanno saputo dar forma al mito di Pulcinella, ambigua maschera in bilico tra sfrontatezza e dolorosa malinconia. Questa loro nuova creazione si muoveva sul duplice binario di una visionarietà intessuta d’intensa poesia, ma – nello stesso tempo – i due coreografi-interpreti non hanno mai perso di vista la gestualità più tradizionale: una scelta doverosa, in un tale contesto. I costumi di Anna Biagiotti, frutto della suggestiva rivisitazione dei celeberrimi disegni di Picasso per il primo Pulcinella stravinskijano, ne hanno sottolineato tutto il fascino surreale e decadente.
Dopo una così emozionante introduzione, Lesbina e Milo (si trattava di una prima esecuzione moderna) è parso forse meno accattivante di quanto, isolatamente, sarebbe potuto sembrare. I suoi tre tableaux, firmati dalla regista Deda Colonna, vengono qui ambientati in uno spazio fatiscente, dove convergono numerose citazioni – dalla commedia dell’arte alle convenzioni teatrali settecentesche – comprese le drammatiche incertezze dell’oggi, che le scene di Benito Leonori, realizzate con materiali appartenenti a vecchi spettacoli jesini, rendono del tutto evidenti. Si delineano così spazi fisici – ben valorizzati dalle luci di Alessandro Carletti – che vengono percepiti soprattutto come suggestivo pretesto per quella che resta, essenzialmente, una dimensione mentale, in grado di suggerire un’ideale liaison des scènes con la Suite. Il progressivo disfacimento cui si va incontro, infatti, se da un lato allude all’ormai imminente svolta radicale che riguarderà proprio il genere dell’intermezzo, dall’altro non può che rimandare alla situazione attuale.
I due interpreti erano il soprano Giulia Bolcato, una spigliata Lesbina che ha saputo imprimere un certo brio al suo personaggio, e il tenore Alberto Allegrezza, un Milo più convincente sul piano scenico che vocale. Li accompagnava l’Orchestra Filarmonica Marchigiana, in formazione da camera, diretta da Marco Feruglio. Un’esecuzione nell’insieme corretta, seppure con un suono poco idiomatico: non tanto nell’intermezzo di Vignola, del quale vengono restituiti lazzi e frizzi, quanto nelle oasi strumentali degli altri due autori.
Giulia Vannoni