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Invisibili

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Invisibili. Questo il termine che viene utilizzato per indicare le tante, troppe persone che vivono ai margini della nostra società, senza dimora. Che cercano di sopravvivere, non potendosi permettere di progettare una vita che vada al di là dell’oggi, o, al massimo, del domani. Ma invisibili non lo sono davvero. Li vediamo, in mezzo a noi, aggirarsi senza una meta, senza un futuro e, soprattutto, senza un presente. Siamo noi a chiamarli così perché è più facile non vederli, perché non ci riguardano, fanno solo parte dello sfondo della nostra, visibile, quotidianità. Sono due mondi, il “nostro” ed il “loro”, che convivono ma che sono totalmente distinti e non comunicanti, e l’unico modo per metterli in comunicazione è rendere visibile l’invisibile. Come prova a fare Umberto Parigi, raccontando la sua storia.

Umberto, come è cominciato tutto?
“È successo tutto circa tre anni fa per problemi di salute, problemi molto gravi. Avevo 55 anni e pesavo 130 chili, muovermi per me era molto difficile, facevo fatica anche solo a camminare, e tutto questo ha avuto un prezzo. Sono stato colpito da uno scompenso cardiaco, che mi ha portato ad avere una grande quantità di liquidi in eccesso in corpo. Ho dovuto assolutamente correre ai ripari per curarmi ed evitare il peggio”.

Cosa facevi nella vita?
“Lavoravo come cameriere ed ero riuscito ad avere una quota in un’azienda agrituristica. Stavo bene, almeno economicamente. Poi con i problemi di salute è cambiato tutto”.

Perché?
“Ho dovuto fare una scelta. Non potendo dedicarmi alla salute e agli affari a tempo pieno e contemporaneamente, ho deciso di dare assoluta priorità al percorso di cure. Questo mi ha portato ad ignorare completamente il mio lavoro, tasse comprese. E qui nasce il mio errore. La Guardia di Finanza mi ha comminato una pena pecuniaria di 210mila euro, cifra che ho pagato fino all’ultimo centesimo. Ma dopo il pagamento non mi è rimasto praticamente più nulla”.

A quel punto a chi si è rivolto?
“Mi sono ritrovato completamente solo. Chi sono le prime persone alle quali si pensa quando si è in difficoltà? Mamma e papà, ovviamente. Loro aiutano incondizionatamente, senza giudicare. Io, però, mamma e papà li avevo già persi, tempo fa”.

Amici e conoscenti?
“Di amici ne avevo, ma il vero problema è l’orgoglio, il mio senso di dignità. È estremamente difficile chiedere aiuto e sostegno, perché implica il dover accettare di essere in difficoltà. Il vero muro che divide il mondo dei cosiddetti invisibili da quello di chi sta bene è la paura del giudizio. E qui nasce un brutto paradosso: io ho bisogno di aiuto, umano ed economico, ma mi vergogno di ammetterlo, prima ancora di chiederlo, e quindi mi nascondo. Celo le mie difficoltà e la mia condizione. Così facendo, però, è molto più difficile essere aiutati, perché gli amici non sono consapevoli, fino in fondo, del mio bisogno. Io, ad esempio, sono di Bolzano. Tempo fa ero riuscito a lavorare un paio di mesi in estate e con i soldi guadagnati sono tornato a casa a rivedere i miei amici. Per la paura di rivelare la mia situazione ho anche offerto loro la cena, per mostrarmi in una condizione di benessere”.

Sono davvero due mondi non comunicanti.
“Esatto. Io posso parlare solo di ciò che provo e ho provato personalmente, senza generalizzare. Ma quando finisci nel mondo invisibile, la vergogna del giudizio ti blocca, ma non solo. Ci sono la rabbia, la frustrazione, il senso di fragilità e di solitudine. E tutto questo porta al rischio di adattarsi, di accettare la propria condizione come l’unica possibile, perché la totale mancanza di speranza porta alla assoluta assenza di stimoli. E, quindi, a smettere di provare a salvarsi, auto convincendosi di essere liberi da una società nemica”.

Ma non è vera libertà.
“No, è pura schiavitù. È essere schiavi del cercare, del caso o della fortuna”.

Ma qualcuno vi vede. Non c’è fiducia verso chi prova ad aiutarvi?
“Purtroppo, molto spesso, chi si avvicina affermando di voler aiutare lo fa per secondi fini. Mi è capitato, in passato, di finire in mezzo a vere e proprie truffe nominative: persone che promettevano di aiutarmi ma che in cambio chiedevano di intestare conti correnti a mio nome, perché tanto io non ho niente da perdere. E, quindi, sono poi io a dover rispondere dei reati degli altri. È evidente come diventi impossibile avere fiducia nel prossimo, anche in chi dice di volerti aiutare”.

E le associazioni di volontariato, come la Caritas?
“Le associazioni mi hanno aiutato molto, mi hanno salvato. È grazie a loro se il cibo o i vestiti non sono più una priorità, perché so che li troverò sempre. Il problema, però, è che non si va oltre. Le associazioni di volontariato ti salvano nell’immediato, ma viene poi a mancare una progettualità per il futuro, un percorso che dia concretezza e solidità ai senza dimora. Grazie a loro posso sopravvivere oggi, domani ed anche dopodomani, ma continuando a vivere alla giornata, senza futuro. È come tamponare una ferita che sanguina, senza però curarla”.

Cosa le darebbe solidità?
“L’elemento fondamentale è la dimora, un tetto sotto il quale rifugiarsi. Avendo quello si ha, potenzialmente, tutto. Perché puoi lavarti, renderti presentabile per cercare un lavoro, l’unica cosa che può trasformare la sopravvivenza in vita. E, soprattutto, avere una residenza ti permette di usufruire delle cure di un medico di base, fondamentale per chi, come me, ha problemi di salute”.

Lei, quindi, come si cura?
“La mia salute ha superato il livello di allarme, ma ancora devo convivere con la tachicardia, che può colpirmi da un momento all’altro, senza poterla prevedere, e che mi costringe ad avere sempre con me tante medicine. E l’unico modo che ho per accedere ai servizi sanitari, proprio per la mancanza di una residenza, è quello di recarmi al Pronto Soccorso. Ma, anche lì, c’è la vergogna di essere riconosciuto e giudicato, oltre ai normali, e lunghi, tempi di attesa”.

Secondo lei, cosa occorre fare per mettere in comunicazione i due mondi?
“Ci vuole uno sforzo da entrambe le parti, ma paradossalmente è la parte più debole a dover fare il più del lavoro. Perché chi condivide la mia condizione deve combattere con gli altri, con chi deve occuparsi di noi ma non lo fa, con chi fa finta di non vederci o si convince che non esistiamo, o che siamo tutti delinquenti da evitare. Ma, soprattutto, deve combattere con sé stesso, con la propria vergogna ed il proprio orgoglio. Purtroppo, quando non hai nulla da dare in cambio, è difficile essere aiutati, mentre è molto facile rimanere da soli. È a quel punto che occorre amare sé stessi ed essere il primo a darsi una mano, e il primo passo è mettere da parte l’orgoglio e chiedere aiuto. Solo così sarà possibile far capire che l’aiuto immediato è fondamentale, ma non sufficiente, e che serve una progettualità che dia solidità per il futuro. Ed è l’unico modo per poter rompere le catene della schiavitù del cercare”. E l’unico modo per rendere visibile l’invisibile.

Simone Santini