Per la Trilogia d’autunno Il ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi e Beyond, il concerto del controtenore Orliński
RAVENNA, 18 novembre 2024 – Il ritorno di Ulisse in patria, ultimo lavoro operistico di Claudio Monteverdi (1640), forse non avrà la stessa impareggiabile freschezza dell’Orfeo o il fascino ambiguo dell’Incoronazione di Poppea, ma certamente configura la strada principale in cui s’inseriranno tutti quei compositori che intendevano cimentarsi con il genere operistico. Questa ‘tragedia a lieto fine in un prologo e tre atti’ è stata proposta a Ravenna per la Trilogia d’Autunno, dopo che nelle due edizioni precedenti erano già andati in scena gli altri due capolavori monteverdiani, affidati allo stesso binomio: Pier Luigi Pizzi per l’allestimento e l’Accademia Bizantina con Ottavio Dantone per la parte musicale.
Il regista realizza uno spettacolo sobrio ed elegante: una scatola bianca dove a destra si vede un letto vuoto e, a sinistra, il telaio su cui Penelope intesse la sua interminabile tela. Tutto si gioca nel contrasto fra il bianco e il nero, mentre le poche note di colore arrivano dagli abiti dei Proci e del tandem plebeo formato dall’ancella Melanto e dal suo innamorato Eurimaco: una coppia di “mezzo carattere” destinata a diventare una presenza fissa nei melodrammi che prenderanno a modello Monteverdi. Non sono molte le trovate registiche (fa eccezione l’enorme rapace sostenuto da un falconiere che accompagna gli ingressi di Minerva), ma d’altronde la musica non ne ha bisogno. Anzi, una cornice così essenziale concentra l’attenzione sulle situazioni drammatiche configurate da Monteverdi con formidabile istinto teatrale.
Dantone si è affidato all’edizione critica predisposta da Bernardo Ticci appositamente per l’Accademia Bizantina, che prevede un organico abbastanza ampio. La sua concertazione mette al centro il canto e la parola (le dizioni dei singoli interpreti apparivano infatti molto accurate), esaltando così la continua varietà delle situazioni drammatiche. Per intonare il libretto di Giacomo Badoaro, infatti, Monteverdi si avvale di una ricchissima gamma di registri espressivi, che cambiano non solo in relazione ai personaggi, ma pure rispetto alle mutevoli circostanze che essi devono affrontare: si va dunque dall’andamento quasi canzonettistico per i personaggi di estrazione bassa al dolente incedere vocale della regina Penelope, e sempre con assoluta pertinenza.
Protagonista il baritono Mauro Borgioni, che ha disegnato con sicurezza un protagonista al tempo stesso incisivo e sfaccettato. Delphine Galou interpreta una Penelope fin troppo algida, rassegnata vestale di un regno in disfacimento. Fra le quattro divinità dell’Olimpo, Arianna Vendittelli ha il ruolo principale: è una versatile Minerva – all’inizio sotto le sembianze di pastorello – capace d’imprimere tratti ieratici al personaggio. Spicca poi il tenore Valerio Contaldo nei panni del giovane Telemaco: il riconoscimento tra Ulisse e suo figlio è stato uno dei momenti più riusciti dello spettacolo. Un altro tenore, Luca Cervoni, ha invece interpretato un convincente Eumete, l’unico a corte rimasto fedele al protagonista. Incarnata con efficacia scenica e vocale la coppia plebea, formata dai disinvolti Charlotte Bowden e Žiga Čopi, mentre Margherita Maria Sala ben figurava nel ruolo contraltile della nutrice Ericlea. I tre Proci (Antinoo, Anfinomo e Pisandro), protagonisti di un bellissimo terzetto, erano il basso Federico Sacchi (interprete anche di Nettuno), l’apprezzabile tenore Jorge Navarro Colorado e il penetrante controtenore Danilo Pastore (impegnato pure nel prologo, nel ruolo dell’Umana Fragilità). Nei panni del parassita di corte Iro, grasso e sfasciato, l’ottimo caratterista Robert Burt ha dato vita – nello scontro con Ulisse – a un’esilarante pantomima comica, com’era nelle intenzioni di Monteverdi.
E se il limite di questo equilibrato spettacolo era forse la mancanza di autentiche eccellenze vocali, il terzo appuntamento della Trilogia d’Autunno ha offerto invece l’opportunità di ascoltare un fuoriclasse: una star acclamata ovunque come Jakub Józef Orliński. Questo trentatreenne controtenore polacco, cui Vogue ha dedicato una copertina, può contare su un seguito incredibile fra persone delle più svariate fasce anagrafiche: piace pure ai giovanissimi che mai si sognerebbero di mettere piede in un teatro d’opera.
Oltre alla duttilità scenica, forse ereditata dai suoi trascorsi con la breakdance, colpisce l’assoluta omogeneità d’emissione (merce rara fra i controtenori), supportata da un timbro estremamente caldo. Sebbene il suo recital Beyond, dove è stato accompagnato dagli ottimi strumentisti del Pomo D’Oro (ensemble che ha in Zefira Valova la sua Concertmaster), sia interamente incentrato sul protobarocco, assai vicino al recitarcantando, la monotonia è stata comunque scongiurata grazie alle enormi capacità espressive di Orliński. Spiritosissimo, tra l’altro, in veste di vecchia, ossia in ruoli che nell’opera barocca erano rigorosamente en travesti. E senza mai scivolare in un facile quanto prevedibile istrionismo.
Giulia Vannoni