Il Sir ha intervistato Gianpiero Cofano, coordinatore della Rete #StopTheWarNow, reduce dalla carovana per la pace in Ucraina.
(da Iasi) Ultima tappa, Kherson, nella città dove i soldati ucraini e russi stanno ancora combattendo da una parte all’altra del fiume. Si è conclusa qui la carovana della pace della Rete #StopTheWarNow. Un gruppo di 150 persone rappresentanti di 180 movimenti e associazioni, cattoliche e della società civile, molto diverse tra loro. Sono arrivati con 30 furgoni pieni di aiuti umanitari e 25 generatori. Per motivi di sicurezza solo una piccola delegazione ha potuto recarsi a Kherson a bordo di un pulmino carico di aiuti umanitari. Sono stati scaricati nella casa della cultura diventato un centro di distribuzione. Tutto attorno macerie e distruzione. Di sottofondo si sentono i rumori dei missili e delle bombe. “I segni della devastazione nella città oggi liberata dalla invasione delle truppe russe, sono evidenti”, racconta Gianpiero Cofano, coordinatore della Rete #StopTheWarNow. “Pochissime sono le persone che possiamo vedere in giro e poche le macchine che circolano lungo la strada. La situazione è davvero molto critica. Per quanto la città di Kherson sia stata liberata da questa parte del fiume, la gente ha ancora tanta paura e tanta incertezza. Difficile immaginare un futuro diverso stando qui sul fronte”. Se Kherson è una città fortemente ferita, a Odessa e Mykolaiv c’è un clima, almeno apparente, di calma e sicurezza.
Come andrà a finire?
In questi giorni abbiamo avuto due collegamenti online con l’ambasciatore italiano e il nunzio apostolico in Ucraina. I diplomatici normalmente tendono ad edulcorare la situazione o a trovare mille parole per dire che si sta lavorando per cercare soluzioni, tendendo in questo modo a tranquillizzare l’opinione pubblica. Entrambi i rappresentanti della diplomazia hanno però detto che dal punto di vista diplomatico non si sta muovendo nulla. Non c’è alcuna prospettiva di dialogo e di negoziazione. E questo spaventa. Spaventa che il mondo intero non stia trovando le parole per mettersi d’accordo e non sia in grado di dialogare.
Di fronte a questa impasse, esiste una via d’uscita?
Sono rimasto scioccato che gli inglesi e adesso anche gli italiani stiano convocando delle conferenze per la ricostruzione. Chi fa una cosa del genere in questo momento è uno sciacallo perché sta pianificando di lucrare sulla testa di questa gente che muore. Bisogna fare una conferenza di pace, non una conferenza di ricostruzione. Certo, ci sono da ricostruire gli acquedotti, i ponti, le infrastrutture, le strade, le università ma stiamo parlando di un Paese che in questo momento è in guerra. Lavoriamo prima per ristabilire la pace e cominciamo a ricostruire, a partire però dai cuori delle persone e dalle relazioni. Questo popolo è devastato dentro.
Il cardinale Zuppi, in un collegamento online con voi, vi ha chiesto di capire “con immaginazione e creatività cosa è più opportuno fare per dimostrare la nostra vicinanza alla popolazione”. Quale emergenza vi ha colpito in particolare?
Un’emergenza sulla quale vogliamo dedicare in particolare l’attenzione è la questione dei bambini e della formazione della scuola. I ragazzi qui hanno vissuto, come noi, 2 anni di pandemia. Poi dalla pandemia sono passati alla guerra. Hanno quindi saltato almeno 3 anni scolastici. Nella stragrande maggioranza, la dad è seguita sui cellulari dei genitori. Ma spesso non c’è segnale. Salta in continuazione l’elettricità. Perdere tre anni di scuola significa perdere il futuro dei prossimi 50 anni.
Qui sono presenti 150 persone di 180 realtà associative molto diverse tra loro. Che Italia è venuta in Ucraina?
È l’Italia che non vuole rimanere indifferente. Che ha a cuore il destino di pace di questo Paese non perché ha paura del rincaro delle bollette o dell’impatto economico che questa guerra ha sulle tasche degli italiani. Questo è il rischio. Chi è venuto qui, lo ha fatto per dire all’Italia di non dimenticare il popolo ucraino, per esprimere solidarietà e vicinanza, per spingere i nostri politici a lavorare per i negoziati. Noi siamo convinti che la pace è frutto anche di una spinta che viene dal basso.
La pace è un sogno o un progetto?
È un sogno progettuale. Don Oreste Benzi ci ha sempre insegnato che le cose belle prima si fanno e poi si pensano. Quando siamo partiti con la prima carovana non avevamo idea di cosa sarebbe accaduto. Sognavamo di fare qualcosa ma non sapevamo esattamente cosa. Quello che in questi mesi abbiamo costruito lo abbiamo scoperto insieme, semplicemente facendolo passo dopo passo. Però è tutto frutto di un sogno. Bisogna quindi avere la propensione al sogno. Se manca questa propensione, significa che siamo diventati uomini e donne che stanno morendo. È il messaggio che sta ripetendo Papa Francesco. Non rassegnarsi significa avere una propensione al sogno. Non tutto si realizza e non tutto va secondo i piani ma non dobbiamo smettere di vivere pensando al domani e sognare.
Maria Chiara Biagioni per il Sir