Al Teatro Janáček di Brno un nuovo allestimento firmato da Robert Carsen dei Viaggi del Signor Brouček
BRNO, 3 novembre 2024 – Un ampio schermo televisivo d’antan fa da sipario. Quando si solleva, gli avventori di un’osteria sono intenti a guardare in tivù immagini in bianco e nero di pionieristiche imprese spaziali: la più riconoscibile è naturalmente quella in cui si vede l’allunaggio – luglio 1969 – degli astronauti Armstrong e Aldrin. Comunque, una prima sfera raffigurante la Luna aveva già accolto gli spettatori fuori del teatro e una seconda era posizionata all’interno, nel foyer. Mettendo in scena un’opera fra le meno rappresentate di Janáček, come il Signor Brouček e il suo viaggio lunare, il regista Robert Carsen voleva forse ricordare che il nostro satellite ha rappresentato uno stimolante soggetto operistico: utilizzato a partire dalla seconda metà del settecento da numerosi compositori, compreso Haydn, sulla scorta del divertente libretto di Goldoni Il mondo della Luna. E quasi centocinquant’anni dopo, nel 1920, s’inseriva in quella scia anche Janáček.
Per questa nuova produzione dei Viaggi del Signor Brouček, che ha debuttato al Festival Janáček di Brno, rassegna musicale ovviamente dedicata al genius loci, il regista canadese ha aggiornato la vicenda – tratta dagli omonimi scritti satirici del romanziere ceco Svatopluk Čech – a una visualità anni sessanta, avvalendosi della collaborazione di Radu Boruzescu per le scene e di Annemarie Woods per i costumi. L’opera, come si sa, è un dittico (al Viaggio del Signor Brouček sulla Luna fa seguito Il viaggio del Signor Brouček nel XV secolo) che dà conto dei deliri trasognati del protagonista quando è ubriaco. Le immagini televisive dello sbarco sul nostro satellite offrono invece a Carsen l’occasione per ambientare la vicenda di questo piccolo borghese, dagli orizzonti limitati, in un preciso periodo storico. Infatti, se nell’opera di Janáček gli abitanti della Luna sono degli pseudointellettuali velleitari, in definitiva non migliori del prosaico protagonista, la regia li raffigura come figli dei fiori (inequivocabile la scritta “Moonstock”, che parodizza il festival di Woodstock, anch’esso del 1969). È una scelta registica vincente sul piano visivo, ma sulla distanza pretestuosa: e che, soprattutto, fa venir meno la dialettica tra fanatici della poesia e un uomo che si preoccupa quasi esclusivamente di mangiare le sue adorate salsicce, affogandole nella birra.
Mantiene una trasposizione fine anni sessanta anche il secondo pannello, quello del viaggio nel XV secolo, che Carsen reintitola Il viaggio del Signor Brouček a Praga. Al posto della guerra hussita, combattuta vittoriosamente dai praghesi contro i tedeschi a inizio quattrocento (la musica di Janáček ne ricrea il raffinato clima musicale), si vedono filmati che rimandano alla primavera di Praga, con le immagini di Dubcek e del drammatico sacrificio di Jan Palach. Viene pure rievocata la storica partita di hockey vinta dalla Cecoslovacchia contro l’Unione Sovietica; e lo spettro di Svatopluk Čech, previsto nelle dramatis personae, diventa lo stesso Dubcek. Naturalmente gli avventori dell’osteria frequentata dal protagonista, dopo essersi trasformati negli abitanti lunari o hippies secondo la declinazione di Carsen, qui diventano organizzatori della rivolta cecoslovacca, nella quale viene coinvolto in modo grottesco il pusillanime Brouček: ne deriva uno spostamento d’epoca e ambiente più riuscito di quello tentato nella prima parte, pur con qualche incongruenza e un finale che non convince (come da libretto, l’epilogo ci riporta all’osteria e ai suoi rassicuranti fiumi di birra, ma l’arrivo di un carro armato fa riprecipitare Brouček nell’incubo).
Il rischio connesso a operazioni del genere è, in primo luogo, quello di equivocare un protagonista che incarna una tipologia umana, diffusa ovunque e non solo a Praga. A scongiurare questo pericolo è la presenza del tenore Nicky Spence, oggi fra i massimi interpreti di Janáček, che delinea un personaggio dai tratti grotteschi e malinconici, grazie a una fisicità ideale per Brouček e a un’emissione talmente salda che gli consente di emergere con estrema naturalezza sullo spessore orchestrale. Dal nutrito cast – ben assortito e amalgamato – tutti meriterebbero una citazione: i ruoli più impegnativi erano comunque ricoperti dalla coppia giovane, l’ottimo soprano Doubravka Novotná, che ha sfoggiato grande scioltezza scenico-vocale, e il solido tenore Daniel Matoušek. Il baritono David Szendiuch si è rivelato un camaleontico caratterista, mentre il basso Jan Šťcva si è imposto sul fronte più strettamente canoro. Altrettanto significativo il contributo del Coro (preparato da Martin Buchta e Pavel Koňárek), molto valido pure sotto il profilo attoriale.
Marko Ivanović ha diretto con slancio l’ottima orchestra Janáček Opera NdB, traendone sonorità fluide e scorrevoli; è poi riuscito a valorizzare la ricchezza timbrica di una partitura che talvolta guarda con intenti mimetici alle sonorità del passato, ponendo la dovuta attenzione alle dinamiche orchestrali. Un’esecuzione che dunque riscatta qualche incongruenza dello spettacolo. Concentrandosi sulla musica, e per merito di uno straordinario protagonista, le intenzioni di Janáček emergono comunque con chiarezza: dar vita a un personaggio che è un archetipo borghese, e non un Hanswurst qualsiasi.
Giulia Vannoni