Due fedeltà e tre impegni
Sarà per il tono evangelico e pastorale, per il linguaggio diretto e propositivo, e lo spirito interpellante e incoraggiante, ma a un anno dalla sua pubblicazione l’enciclica Evangelii gaudium continua a provocare la nostra riflessione, come singoli e come comunità. Cosa significa nel concreto per noi cristiani – cristiani impegnati nell’ambito culturale – essere “chiesa in uscita”? Chi sono per noi i “poveri”?
Pensiamo che l’atteggiamento “giusto”, sia quello di cui ci ha dato testimonianza Alberto Marvelli, quello cioè della doppia fedeltà a Dio e alla storia.
È l’atteggiamento della Lettera a Diogneto:“I Cristiani non per la terra, né per i costumi si distinguono dai rimanenti uomini. Non abitano proprie città, né parlano una lingua straniera, né fanno vita appartata. Abitano città greche e barbare, adattandosi ai costumi locali, nel vestito, nel mangiare, nel restante genere di vita, agli usi e ai costumi degli altri paesi, danno prova di una condotta ammirevole e, per confessione di tutti, sorprendente”.
È l’atteggiamento di Agostino: “Che il popolo della città terrena goda pace durante la vita presente è problema che riguarda anche noi, perché finché le due città sono mescolate insieme, anche noi ci serviamo della pace di Babilonia…per questo l’apostolo Paolo ha invitato la Chiesa a pregare per i re e gli uomini che stanno al potere, perché possano trascorrere una vita calma e tranquilla, con tutta pietà e dignità”. (De civitate Dei, XIX,26)
Per riuscire a vivere la prima fedeltà ci sembra di dover tornare a meditare la verità di Dio, del Dio dell’annuncio di Paolo: “I Giudei vogliono i miracoli e i Greci cercano la sapienza; ebbene noi annunciamo Cristo crocifisso, scandalo ai Giudei, stoltezza per i gentili…” (1Cor.1,22); il che significa sforzarci di testimoniare la follia della croce, fatta di donazione, di sacrificio, di sofferenza e di…morte. Perché l’onnipotenza, l’eterna giovinezza, l’immortalità non possono definire l’uomo.
Tornare alla verità di Dio ci aiuta così a tornare alla verità dell’uomo, per contrastare i riti di morte che vengono messi in atto per tacitare la paura della morte, per impedire che il dolore e la vecchiaia vengano confinati dove non danno fastidio nemmeno alla vista; per imparare a valorizzare il tempo della nostra avventura umana, a conferirle significato e a non perdere le occasioni che ci si presentano.
La seconda fedeltà è al mondo, con una attenzione particolare ai poveri. Dei tre tipi di povertà che elencava il documento di Medellin nell’ormai lontano 1968 – quella reale, quella culturale e quella sociale – per le caratteristiche stesse del nostro movimento a provocare la nostra riflessione è la povertà culturale. I poveri di cultura non abitano lontano da noi; sono coloro che per ragioni diverse sono privati della opportunità di accedere ad una pienezza di umanità attraverso l’acquisizione di un patrimonio di conoscenze, di valori, di qualità, coloro che “non contano”, collocati alla periferia del nostro orizzonte affettivo. Pensiamo soprattutto ai “poveri di parola”, che in un mondo pieno di parole, paradossalmente, sono tanti. E non si tratta solo degli immigrati che non conoscono la nostra lingua…Sono quelli che ricorrono alla violenza perchè non possiedono le parole per esprimere il disorientamento, la delusione, la frustrazione, l’angoscia. Sono coloro che non riescono a vivere legami duraturi, perché non sanno esprimere i sentimenti, confortare, condividere una attesa, una speranza, un dolore. Sono i tanti che si nascondono dietro al turpiloquio, per non “farsi trovare”, per non essere costretti a motivare le scelte e i comportamenti o che, per essere rassicurati, rimangono aggrappati a slogan banali, che tentano di mascherare il piccolo da grande.
Il primo impegno di carità crediamo, dunque, che sia quello educativo: chi ama educa. Nella famiglia, nella scuola, nell’università. Nel rispetto delle diversità di ciascuno, provocando le domande “giuste”, quelle che riguardano piuttosto il perché che il come, quelle che aprono l’uomo al meta-fisico, a ciò che non si può né quantificare né monetizzare, a ciò che, trascendendolo, fissa dei limiti all’uomo, ma ne garantisce insieme la dignità. Per aiutare a comporre in unità la molteplicità dei saperi, per trasmettere il gusto di una ricerca onesta e libera e porre il problema del giusto e dell’ingiusto, del vero e del falso, disancorandosi da quello del mi piace/non mi piace, perché non può essere la nostra scelta a conferire legittimità alle cose. Per rendere capaci di “abitare” di nuovo le parole che ci collegano alla verità di noi stessi, del mondo, degli altri: consapevolezza di sé, impegno, trascendenza, dialogo, comunione, stupore, riconoscenza, fedeltà, misericordia…
Il secondo impegno di carità deve essere fare con competenza il lavoro che i tempi e le circostanze della vita – nei casi più fortunati la libera scelta di ciascuno – ci hanno posto a svolgere. Solo attraverso l’impegno nello studio e nella ricerca, uniti alla passione per l’uomo, possiamo arrivare a dare contributi significativi, a far sì che i valori evangelici diventino storia. Ciascuno nel proprio settore. Per far questo dobbiamo lavorare in maniera insonne per crescere in professionalità e in spiritualità, per essere in grado di comprendere le domande degli uomini di oggi, e cercare insieme a loro la Verità. Per arrivare ad essere – come scrive Marvelli – “l’intelligenza della società”, nel senso di “spiritualità viva”: “Intelligenza non è solo saper meglio, non è solo acutezza della mente, ma è anche finezza del cuore, è sapienza delicata di comprensione, è atteggiamento intelligente e amoroso del cuore che sa ascoltare le anime, che sa avvertire i bisogni dei fratelli, è amore, oltre che ingegno”.
Il terzo impegno di carità è nell’impegno politico, in quella che Pio XI definiva la “grande politica”, ma anche in quella più “feriale”, all’interno dei partiti e delle istituzioni..
In questi ultimi vent’anni c’è stato da parte dei credenti il rifiuto della politica attiva come il luogo del compromesso, della prevaricazione, della corruzione…
Ma non può darsi convivenza civile senza che nessuno si faccia carico della cosa pubblica, senza che ci sia chi contribuisca a fissare obiettivi condivisibili, chi si impegni a far sì che fonte del diritto non sia più il potere, ma il bisogno, chi lavori per creare consenso intorno alle scelte che una comunità è chiamata, comunque, a compiere, chi fatichi a mediare posizioni antitetiche, chi si sforzi di non far degenerare in rissa la pur legittima divergenza di opinioni, chi si spenda per dare voce e dignità ai “non cittadini”, ai “cittadini a metà”, agli “avanzi urbani” (E.G.74). Pur nella realistica consapevolezza che non esisterà mai una città nella quale scompaiano le periferie, ma che rimarrà sempre qualcosa da fare.
Movimento ecclesiale di impegno culturale
I volti concreti della povertà
Un grido, quello dei poveri, che più volte Papa Francesco ci ha invitato ad ascoltare per farci interrogare e cambiare il nostro modo di agire a livello ecclesiale e personale.
Abbiamo pensato, come Fondazione San Giuseppe per l’Aiuto Materno e Infantile, di offrire anche noi il nostro contributo.
Per noi, oggi come cento anni fa, la povertà assume soprattutto questo volto: il volto di madri sole chiamate a crescere in condizioni difficili i loro figli, il volto drammatico di bambini e adolescenti che nella loro famiglia hanno subito violenze, maltrattamenti, abusi, il volto di tanti minorenni stranieri che ogni giorno rischiano la vita per raggiungere il nostro Paese in cerca di nuove speranze, il volto dei ragazzi disabili e delle loro famiglie, il volto dei ragazzi vittime di forme di sfruttamento (lavorativo e sessuale), infine il volto di quei giovani di cui ci occupiamo anche grazie alla collaborazione con l’Associazione Agevolando che, una volta compiuti 18 anni, si trovano completamente soli ad affrontare la vita adulta.
Alcuni dei ragazzi che incontriamo riescono a costruirsi un futuro dignitoso: con una casa, un lavoro, relazioni importanti. Sono giovani resilienti, che fanno incontri positivi, che riescono a riscattarsi malgrado le condizioni di vulnerabilità e fragilità da cui muovono.
Ma alcuni giovani non ce la fanno: ci sono giovani che si ritrovano a vivere in strada, che scelgono carriere devianti, che incontrano forme di disagio e dipendenza.
Su questi giovani vogliamo in particolare concentrare le nostre energie, le nostre forze, la nostra fede: non avere avuto una famiglia di riferimento sulla quale contare o avere famiglie lontane e in difficoltà non significa essere figli di nessuno. Anzi, proprio per questo, questi ragazzi sono ancor di più figli nostri e di tutta la collettività.
L’impegno e il sostegno di cui necessitano ci coinvolge tutti: come operatori sociali, come cittadini, come credenti.
Non possiamo chiudere gli occhi di fronte a questa realtà, dobbiamo invece spalancarli, guardarci attorno con più attenzione e con più sensibilità. Il cammino da fare per costruire una chiesa e una società più accoglienti e inclusive è infatti ancora lungo e richiede l’impegno di tutti.
Tanti giovani soli e abbandonati hanno bisogno di noi per ritrovare fiducia in loro stessi e nel mondo e costruirsi un futuro che valga la pena di essere vissuto.
La Fondazione San Giuseppe per l’Aiuto Materno e Infantile ONLUS