In principio fu il maestro unico. Agli inizi di questo nuovo anno scolastico la neo Ministra all’istruzione Maria Stella Gelmini parlò della necessità di migliorare la struttura della scuola italiana e di abbattere i costi della stessa. Urge tagliare, quindi. Subito si alzano schiere di ‘no’ e di ‘si’. Da una parte quelli che: “la scuola elementare è quella che funziona meglio, perchè rovinarla”, dall’altra quelli che: “troppi soldi, troppi insegnanti impreparati…la Gelmini ha fatto bene”. Il 7 ottobre tutte le agenzie italiane battono la notizia della concessione della fiducia da parte della Camera sul “pacchetto Gelmini”. E giù di manifestazioni di piazza e picchetti vari. Ora la cosa si ripete, questa volta però non si parla di voti in condotta e unicità dell’insegnamento, bensì di classi cuscinetto che dovrebbero accogliere per un “periodo” gli alunni stranieri che non hanno capacità di comunicare, quindi poca dimistichezza con la lingua italiana. Sino a questo momento però, poco si è capito. Forse perché le classi cuscinetto sono state inserite in una mozione, quindi ancora lontane da una precisa definizione e articolazione su quello che diventeranno, sempre che diventeranno. La percezione diffusa è che si stia parlando in modo aleatorio su di una cosa altrettanto aleatoria. E stando alle voci di dissenso che si sono sollevate verso la Gelmini, esisterebbe una sorta di distacco tra la realtà e quello che predica la mozione (che non bisogna dimenticare è stata sottoposta dalla Lega Nord). “Ma queste persone sono mai entrate in una scuola vera?” tuonano gli insegnanti e quelli che l’integrazione la fanno ogni giorno.
Dicotomia di un dibattito
Tracciamo una linea in mezzo a quanto, sino a questo momento è stato detto e scritto su tali classi di inserimento. Da una parte la Gelmini e gli ideatori della mozione che difendono la loro creatura, accusando il sistema informativo tutto, della distorsione dei loro pensieri. Nella sua ultima apparizione pubblica (19 ottobre) la Ministra ha puntualizzato: “non parliamo di classi ponte, ma di una verifica di conoscenza della lingua italiana. E poi, di corsi che permettano agli studenti stranieri di mettersi al passo con i loro coetanei e di sentirsi cittadini a tutti gli effetti”. Il Gelimini pensiero è semplice e lineare: bisogna conoscere la lingua, perché il razzismo vero è quello che costringe gli extracomunitari a non comprendere gli insegnanti e “obbliga gli studenti italiani a una convivenza difficile con i loro coetanei stranieri, in chiara difficoltà di apprendimenti. Non si tratta di un problema di razzismo ma di un problema didattico”. Morale della favola, questi ragazzi devono fare un test di ammissione alla lingua italiana. Ancora non è stato detto niente: chi lo scriverà? Che prove conterra? Quali criteri verranno utilizzati per valutare il livello ‘minimo’ di conoscenza della lingua italiana?. Ad ogni modo, qualora non avessero tali basi, i ragazzi dovranno passare un periodo (non meno di un quadrimestre) di apprendimento ‘separato’ per poi passare nelle classi dove ci sono tutti gli altri.
Dall’altra parte della linea prima tracciata ci sono quelli che urlano allo scandalo, quelli che alla Ministra hanno affibbiato i poco simpatici nomignoli di “Ministro della distruzione” e “Santa della beata ignoranza”. I loro dubbi si contano sulle dita di una mano: si teme il ghetto. Si dice che l’integrazione già le scuole italiane la fanno e la fanno bene, perché non potenziare queste realtà ben avviate? Come si può parlare di integrazione, se poi si alzano dei muri, addirittura dai banchi di scuola? Ci sono fior fior di studiosi di apprendimento della lingua, che non avrebbero nessun problema a testimoniare anche sotto giuramento, che vari test hanno dimostrato che non esiste miglior modo di apprendere una lingua se non immergendosi in essa, attraverso quello che in gergo viene definito “bagno linguistico”.
L’integrazione a Rimini
Gli ultimi dati a disposizione del Csa di Rimini, aggiornati al dicembre 2007 e che si riferiscono alla popolazione scolastica straniera dell’intera provincia, parlano (per le scuole statali) di 326 bambini stranieri che frequentano le scuole d’infanzia (290 dei quali arrivano da paesi extra UE), 1363 nelle primarie (1152 extra UE), 963 nelle medie (823 extra UE), 1418 nelle secondarie (1284 extra UE), per un totale di 4070 presenze (3549 extra UE). Numeri importanti, che portano a riflettere anche i rappresentanti delle scuole e delle istituzioni cittadine.
Stefano Vitali, assessore alle Politiche educative e scolastiche del Comune di Rimini, non fa sconti. “Se le cose sono come ci sono state raccontate sino a questo momento, il rischio che si corre è quello del ghetto culturale. Chi viene nella nostra terra deve avere la possibilità di integrarsi, di parlare, di conoscere, di relazionarsi”. La scelta delle classi separate, non è forse la risposta a quei genitori di figli italiani, che lamentano un rallentamento didattico per “colpa” degli stranieri?, chiediamo allora all’Assessore. “A livello populistico questa è la risposta giusta, la più adeguata. Ma dobbiamo andare in fondo alle cose. Pensare a un bene più grande. Quello di cui ho paura è che prima o poi queste persone si arrabbino con il mondo che li circonda. Che tutto degeneri, per ritrovarci poi, davanti a scene, simili a quelle che abbiamo visto pochi anni fa nelle periferie di Parigi”. Vi sarebbe quindi da fare un discorso sul lungo periodo, perché le persone che si siedono oggi tra i banchi di scuola, domani saranno i lavoratori delle nostre città: “Questo è un aspetto da non trascurare. Così come non è da trascurare che la scelta della ‘classe separata’ può essere un inizio. L’inizio di una deriva. E se un giorno si decidesse di mettere in classi separate i bambini portatori di handicap. Non escludo che si possa andare verso questa triste direzione”.
Uno dei punti sui quali si battono tanti operatori del settore è: “noi l’integrazione già la facciamo da tempo e la facciamo pure bene. Perché non proseguire su questa linea? Perché non parlare di potenziamento piuttosto che di tagli?”.
È questa la semplice domanda che continua a ripetersi anche Simonetta Baffoni, vicepreside della scuola media E. Fermi di Viserba, che opera da anni sul fronte dell’accoglienza degli studenti stranieri e della preparazione all’apprendimento didattico: “Da anni noi abbiamo delle classi di accoglienza. Qui i bambini passano un periodo (fino a Natale) in cui imparano l’italiano. Si tratta di 2 o 3 ore, le rimanenti ore le passano con i compagni. Questo perché penso che l’integrazione non passi unicamente attraverso l’apprendimento tout court, ma attraverso la socializzazione con l’italiano, le regole di comportamento, gli usi e le consuetudini”. Anche la professoressa Baffoni teme il ghetto, teme che in questo modo non si costruisca nulla di buono, anche perchè la sua esperienza la porta a dire che a volte sono gli stessi italiani ad aiutare i compagni in difficoltà nell’apprendimento, in un proficuo scambio che ha il sapore di un futuro roseo e pieno di speranza.
La questione non è semplice, parliamo di una serie di problematiche complesse che non sempre vengono gestite nel modo corretto. Tanto che non è raro sentire dei genitori che lamentano una certa lentezza nella didattica causata dalla presenza (più o meno massiccia) di bambini stranieri nella classe dei figli. La cosa su cui bisogna riflettere è una: quella che cerchiamo di intraprendere è la strada giusta? Se il motore che muove tale direzione è il dividere piuttosto che l’unire la riflessione da fare diventa tanto più ardua quanto necessaria.
Angela De Rubeis