La storia attraverso la memoria delle persone. Ultimamente questa strada è stata sempre più battuta per raccontare pezzi di “epoche” che sono fatti semplicemente da un vivere quotidiano. Una tendenza anomala se si pensa alla celebrazione dell’attimo, del presente e alla diffusione massiccia di uno tra gli sport preferiti dagli italiani: la dimenticanza e l’oblio.
I contadini, i lavoratori, i loro usi e i loro costumi, la loro vita e la loro esistenza fatta di piccoli gesti rituali che la scandivano. I valori e i precetti, in poche parole la vita vissuta con tutto il suo corredo di regole. Il libro scritto da Maurizio Casadei, I giorni del lavoro e della festa: la chiesa e la tavola a Monte Colombo nel Novecento, è un esemplare particolarmente bello di questa tendenza letteraria che restituisce al presente una “normalità” ricca di curiosità e di poesia.
Il volume voluto dall’Amministrazione Comunale di Monte Colombo è ricco di fotografie in bianco e nero che regalano al libro una ricchezza in più.
Casadei, io comincerei dal principio. Perché e come nasce un libro che guarda indietro mentre tutt’intorno a noi si tende a guardare all’attimo presente?
“Penso sia giusto che ognuno possa conoscere la storia della terra che abita. Sapere da dove viene, che cosa vi è successo, chi l’ha abitata in precedenza, i nostri padri e i nostri nonni o anche solo i nostri vicini se siamo arrivati da poco. Avere informazioni su com’è nata la realtà d’oggi, l’attuale economia e la società, l’identità presente fatta di paesaggio, centri abitati, soggetti e luoghi di aggregazione, seguendo le tracce di una storia vissuta, appunto”.
Non è il primo libro che lei ha realizzato su Monte Colombo, ma questo sembra diverso dai precedenti. È solo un’impressione?
“No. Se in alcuni libri precedenti abbiamo descritto le istituzioni pubbliche, con questo iniziamo a riscoprire i montecolombesi, la loro vita quotidiana ed il loro lavoro, il modo di parlare e di esprimere sentimenti, di essere comunità e di distinguersi dai vicini, di sperare e pregare insieme, di rapportarsi con gli accidenti della storia, di vedere ed interpretare il mondo”.
Grazie ai montecolombesi, quindi. Ma chi sono state le sue fonti principali?
“I nostri concittadini più esperti (non anziani: che brutta parola!), biblioteche viventi per i loro ricordi ed insieme consulenti, indispensabili se si vuole svolgere un buon lavoro di collegamento tra gli spezzoni individuali della memoria, per dare un senso logico e cronologico alle testimonianze, coglierne il bandolo e decifrarne i perché: di un ricordo al posto di un altro, di un non ricordo dovuto a una rimozione volontaria o ad una semplice dimenticanza”.
E un libro solo per montecolombesi?
“Questo non è Il Libro della storia dei montecolombesi ma si riferisce a buona parte della vallata del Conca più interna, anzi a quasi tutto l’entroterra riminese visto che in questi mesi ho avuto confronti con altri autori ed il riscontro di situazioni simili a quelle da me descritte. Quello che abbiamo cercato di fare è raccogliere delle testimonianze, confrontarle tra loro, metterle in ordine per argomenti pur senza stravolgerle, quindi trascriverle. Quanto è contenuto nel libro è una parte del materiale accumulato, il primo risultato di un classico cantiere aperto che sarà seguito da future pubblicazioni”.
Rimanendo sul libro. Cosa mi dice del titolo? Mette un bel po’ di carne sul fuoco…
“Sì, leggendo il titolo del libro si potrebbe pensare che in esso ci sia un curioso accostamento di argomenti. Passi per i giorni di lavoro accostati a quelli di festa, in fondo succede in ogni settimana, ma che cosa c’entra la chiesa con la cucina? C’entra. Anzi c’entrano entrambe le coppie di parole. Per oltre metà del secolo scorso, quando in questo territorio si viveva solo di agricoltura, i giorni del lavoro erano tutti quelli che non erano le domeniche e le altre feste comandate, non essendovi pause alle fatiche nei campi o nelle stalle, né vere vacanze, neppure per molti scolari che d’estate dovevano aiutare in famiglia. Perfino i compleanni non erano giorni di festa come oggi siamo abituati a trasformarli, né erano fuori dai giorni di festa i matrimoni, almeno nella normalità che prevedeva comunque un gioire allargato alla comunità”.
La festa era un momento fondamentale della comunità, soprattutto quella religiosa…
“Infatti. Ad interrompere la monotonia del tempo di lavoro c’erano solo le festività presenti nel calendario liturgico, non essendo riconosciuta altra motivazione al fare festa che non fosse religiosa; e non essendovi altra forma di festa che non fosse collettiva, dell’intera comunità parrocchiale, perché la vera festa non poteva essere un fatto privato, nel chiuso di una singola casa o in un veglione di carnevale. Lo stesso carnevale (in realtà solo i suoi ultimi giorni) era una breve pausa tra il lavoro e un’espressione di semifesta laica, autorizzata ai bambini ed ai ragazzi, meno ai più grandi”.
Ci spieghi meglio l’atteggiamento delle persone nei confronti della festa e la religione
“C’erano cose e atteggiamenti differenti, ci si vestiva, ci si dava da fare, ci si incontrava e salutava, si partecipava agli eventi che coinvolgevano le comunità, in un modo o nell’altro a seconda che si fosse in un tempo ordinario oppure in uno festivo. A lungo le feste sono state un modo per rendere concreto un aspetto della religione, il rapporto con i santi, andando oltre solite le preghiere. Venivano celebrate processioni ed esecuzioni di voti, con messe solenni e varie pratiche devozionali, con la banda e i fuochi d’artificio per mostrare quanto una comunità era disposta a sacrificare il poco di cui disponeva pur di onorare un patrono. E dopo le messe e le altre forme di festeggiamenti religiosi, quei giorni avevano segni distintivi laici, oggetti come il vestito e le scarpe buone, perfino le sigarette della domenica, un passaggio all’osteria, l’incontro con la morosa, il mettersi in mostra per trovare il compagno della vita”.
La tavola, mi pare di capire, aveva un ruolo fondamentale in queste celebrazioni.
“Il cibo della festa era un cibo migliore, diverso da quello povero e sempre uguale degli altri tanti giorni. Per la maggior parte degli abitanti di Monte Colombo, che hanno condiviso se non la fame almeno un bel po’ di povertà, in tutti i giorni della settimana esclusa la domenica si lavorava e ci si arrabattava per rimediare un po’ di cibo, poi però la domenica e le altre feste comandate, dopo il passaggio in chiesa, rientrando in casa si ritrovava la tavola più ricca. Al posto della solitaria minestra o zuppa di fagioli c’erano tagliolini in brodo e lesso, il nostro mangiare delle feste prima dell’arrivo del benessere, a partire dagli anni Sessanta.
Riesce a fissare una data spartiacque? Dove si fissa il prima e il dopo questo modo di vivere?
“Fino ad una quarantina di anni fa le differenza tra i due momenti, il loro modo di essere scanditi e di essere vissuti, era molto sentita. Oggi non è più così netta la distinzione tra un tempo per il lavoro e le cose ordinarie ed un tempo per il riposo e la festa. Il primo si è modificato, a volte per esigenze economiche è dilatato fino a coprire le domeniche ed i giorni di solennità religiose. Il secondo è stato sostituito nella nostra attenzione dalle ferie e dalle vacanze (che letteralmente significherebbe un tempo
vacuo un non tempo perché vuoto!). Oggi possiamo fare festa quando ci pare, senza rispettare alcun calendario, liturgico o civile. Anzi no, un calendario lo seguiamo, è quello che ci impone il consumismo con halloween o san Valentino, la notte di capodanno e quelle di tanti colori che punteggiano tutto l’anno, il ferragosto e lo sforamento del carnevale nella segavecchia e nelle mille altre occasioni che oramai coprono quasi tutta la prima parte dell’anno”.
A cura di Angela De Rubeis