Nella nuova produzione della Bayerische Staatsoper il regista Mundruczó ambienta l’opera nell’Italia degli anni settanta
MONACO, 26 maggio 2024 – Se c’è un’opera indissolubilmente legata al contesto storico e alla città in cui è ambientata, questa è Tosca. Nel libretto di Illica e Giacosa sono troppi i riferimenti al 1800, quando ormai la breve stagione della prima repubblica romana si era conclusa, ma se ne avvertivano ancora le conseguenze. Volendo comunque ancorare la vicenda a un preciso periodo storico italiano, Kornél Mundruczó, che firma la regia di una nuova produzione dello Staatsoper di Monaco per celebrare il centenario pucciniano, ha attualizzato quella singolare esperienza, ambientando Tosca negli anni settanta. Così Mario Cavaradossi non è più un pittore, ma un cineasta di sinistra; Cesare Angelotti un brigatista che gli chiede aiuto per nascondersi; il barone Scarpia un braccio armato della Democrazia Cristiana, che approfitta del suo potere per reprimere violentemente ogni forma di dissenso e abusare di ragazzine adolescenti; mentre la cantante Floria Tosca evoca inequivocabilmente Maria Callas. Certo la trasposizione è azzardata, soprattutto perché quel Cavaradossi-regista con gli occhiali neri sempre inforcati ricorda fisicamente Pasolini: qui intento alle riprese di un film intitolato nominalmente Don Giovanni, benché le immagini che si vedono sul palcoscenico rimandino di fatto a Salò. In seguito, mentre – ormai condannato a morte – ripercorre la sua vita, scorrono spezzoni di Mamma Roma, Teorema, della Callas, che per Pasolini fu protagonista del film Medea (oltre ad essere una fra le interpreti più iconiche di Tosca).
Nonostante la coerenza della cornice complessiva, quella dell’illustre regista ungherese appare forse una lettura un po’ forzata. È vero che Pasolini si schierò tante volte contro la repressione poliziesca, ma non può essere certo considerato un fiancheggiatore delle Brigate Rosse. Così un periodo tormentato e pieno di contraddizioni – in questo davvero simile all’esperienza della prima repubblica romana – corre il rischio di essere decifrabile solo da chi quella stagione l’ha vissuta per motivi geografico-anagrafici: non è detto che i più giovani sappiano decodificarlo e, ancor meno, gli stranieri. Mai sentito, infatti, un dissenso così forte e rumoroso da parte del pubblico alla Bayerische Staatsoper, tanto più che si trattava di una terza replica e non di un debutto.
Le riverberazioni di una simile chiave visiva si riflettono pure sull’andamento drammatico: Scarpia non è tanto quello che concupisce Tosca – con un atteggiamento ai limiti della blasfemia – proprio durante la cerimonia in chiesa, perché qui si limita ad adocchiare le adolescenti che fanno parte del coro di voci bianche. Ed è proprio il fondamentale episodio del Te Deum ad apparire il meno riuscito, risolto in un caotico pestaggio di polizia. Qualche perplessità riguarda anche il finale, dove – anziché lasciare il primo piano alla protagonista – l’accento è posto sulla grettezza dei mediocri, lasciando calare il sipario su un disperato moto di stizza dello sbirro Spoletta. Appare invece più funzionale la conclusione del secondo atto, anche se non vengono rispettale le minuziose indicazioni – fornite dalla partitura pucciniana – dei gesti che Tosca deve compiere sul cadavere di Scarpia. Infatti Mundruczó non fa partire furtivamente la protagonista, ma la lascia, con la sottoveste insanguinata, al centro del palcoscenico, affiancata però da un gruppo di giovani svestiste e imbrattate come lei: tutte vittime della violenza del capo della polizia. Ne fuoriesce un aspetto da vendicatrice protofemminista, probabilmente estraneo alla drammaturgia dell’opera, ma anch’esso molto anni settanta.
La direzione musicale era affidata ad Andrea Battistoni, che non sempre è riuscito a equilibrare i volumi sonori dell’ottima Bayerisches Staatsorchester, pur avendo apprezzabilmente fatto ricorso a cesure secche, che arricchiscono la musica di una suggestiva componente espressionista. A risentirne è stato soprattutto il tenore Charles Castronovo, spesso costretto a forzare per emergere al di sopra del tessuto orchestrale, che comunque ha costruito un Cavaradossi in crescendo, fino a un E lucevan le stelle persuasivo e toccante. Eleonora Buratto, a sua volta, è una protagonista vocalmente di prim’ordine, dall’emissione morbida, sempre a suo agio nel canto legato, forse un po’ meno incisiva nel declamato. Dotato di grande stabilità di suono, il baritono Ludovic Tézier ha incarnato la faccia violenta del potere, e grazie a un sapiente fraseggio ha impresso a Scarpia tutta la sua sgradevolezza. La regia assegna grande risalto al personaggio del sagrestano che – seppure con caratteristiche ben diverse dall’originale pucciniano – era interpretato da Martin Snell, vocalmente saldo e ottimo attore. Sempre sicuro il tenore Tansel Akzeybeck che fa di Spoletta un personaggio grottesco e involontariamente comico. Efficace Milan Siljanov nel ruolo di Angelotti, mentre il canto del pastorello fuori scena era affidato a una voce bianca del Tölzer Knabenchor. A rendere più vivida la sua canzone, le indimenticabili immagini del Pasolini di Mamma Roma, con alcune proverbiali inquadrature di Anna Magnani, che scorrevano sullo sfondo.
Giulia Vannoni