Sopra un respiro di musica armena una voce alta del Novecento mondiale si è staccata dal ramo. Non si è trattato di una foglia. Si è trattato di un fiore completo. È stato detto: solo un fiore che cade è un fiore completo, un fiore perfetto. In ciò, vi è della verità che ombreggia mestizia e nel frattempo, nel suo rovescio, desta meraviglia, sporgendo le ombre malinconiche sopra un orlo di verità e di mistero. Se ci addolora un fiore che cade perché con esso finisce una perfezione particolare della vita, in un altro senso quel distacco esalta non so come un rispetto da cui la caducità trae il suo buono, il suo lato eterno e perfetto. Di un’eternità che si potrebbe tradurre (e non a malapena) nel transitorio e nell’effimero. Anche la parabola del fiore di Tonino Guerra s’intona nei momenti più belli della sua poesia, a paragone di questo cosmico, mai aggirando né solennità né malinconia di una tale legge che immette noi e tutte le altre specie nella solidarietà semplice e complessa all’ora divina che scorre. Quanto a Guerra, il fiore si è staccato dal ramo al momento della sua espressione compiuta. Dalla lontana “tradotta” di una poesia giovanile che lo riportava reduce dalla Germania, ai vertici sommi delle poesie degli anni ’80-’90 che disseminano un lievitare e poetizzare continuo di libri. Il distacco di Tonino è durato per l’appunto il tempo della fioritura dei mandorli, così cari e particolari al suo dono creativo e alle alte, inneffabili concezioni spirituali di un oriente a lui caro più che mai.
La patria umana e spirituale di Tonino era la “verticalità”, come lui diceva.
Quella verticalità che aveva trovato recentemente in Armenia, e che gli ispirava sempre più l’ascetica eternità della iconostasi, la cui comprensione poneva quasi a conquista definitiva del proprio spirito. Rivedo come presente il suo ultimo incontro pubblico sulle pitture di certi conventi visitati nei dintorni di Mosca: l’impressione colta di un volo nella trasparenza, a ridosso di tutto il reale trovato in quel rosa, in quelle terre di ocra, in quelle patine d’acqua e d’affresco che sprigionavano dalle absidi dipinte come pagine di libro appena sotto l’onda del vero. E rivedo il suo volo d’aria con le parole e con gli occhi – “come uomo preparato per tempo”, ha detto un poeta – già sul limite di un visibile che intuiva di là dalla natura e dalla forma, Per questo, nonostante il barricamento sanguigno dello scrittore entro una propria misura umanistica di uomo che non fugge al proprio destino perituro e senza altrove, devo dire di non aver ascoltato autore proferire mai tanto bisogno del sacro, sia pure nei modi non formali di laico che egli professava. Laico? E chi non lo è tra di noi? Eppure c’è stata in Guerra una nostalgia religiosa che ha tenuto sospeso il suo essere, benché senza cercare legittimazione qualsiasi. Ripeto, una nostalgia di sacralità, che nasceva indubbiamente dalle forme di un’immensa, piena, commozione, tra le più ansiose e inesplicabili prodotte da uno scrittore della sua mentalità e provenienza. Nasceva anche da un’apprensione estetica, dal sodalizio con il genio del misticismo russo che lo ha pervaso in modo crescente dopo l’unione con la moglie Elonora. Si fa davvero fatica a pensare a un solo Guerra di prima eccezione, al poeta e scrittore per il cinema degli anni ’50-’70, senza il ricorso integrante al secondo Guerra degli anni ’90 e 2000 in cui ha risaltato l’intonazione specifica alla bellezza, alla responsabilità umana, etica, quale strumento civile e non solamente condizione fantastica, È stato ben detto, da Omero a Dostoevskij, che “Le cose belle (…) portano sempre dentro di sè un saluto da altri mondi”.
L’affermazione di Elaine Scarry potrebbe benissimo stare in bocca a Tonino, E in ogni modo riflette l’incontro diffuso e distributivo con la bellezza, che egli ha offerto per brani, sequenze, proposte, sentenze, per una mole di lavori che restano tutti da ordinare e comprendere nella loro propagazione al di fuori di generi e comici.
Luca Cesari