Sembra una partita a scacchi tra l’Unione Europea da un lato, e la Bielorussia e la Russia dall’altro, se non fosse che i pedoni e i pezzi che vengono mangiati sono persone, per la precisione siriani e altri profughi in fuga da persecuzioni e guerre, che invece di trovare accoglienza si ritrovano su una scacchiera a rischiare inconsapevolmente la vita.
A differenza loro, però, noi siamo perfettamente consapevoli di quello che accade alle persone quando vengono abbandonate in mezzo ai boschi per settimane, mentre fuori l’inverno russo gela ogni cosa: si muore.
La politica è sempre complicata, ci sono di mezzo le forniture di gas e le sanzioni, ma la cosa più meschina, per entrambe le fazioni, è quando il governo di Minsk, per fare un dispetto a Bruxelles, decide di aprire i propri confini ai migranti – soprattutto siriani – che scappano dal Libano e dagli altri paesi in guerra del medio oriente sapendo di mettere la Comunità Europa, ancora una volta, in difficoltà per l’accoglienza di qualche migliaio di persone.
La sofferenza invece è più semplice. Semplice da vedere, da capire e da empatizzare. Per questo viene nascosta.
“La cosa più sconcertante, quando siamo arrivati al confine tra Polonia e Bielorussia, è stata la militarizzazione di tutta l’area, e l’impossibilità di entrare in contatto con le persone. Tutta la zona è pattugliata da soldati, droni, elicotteri. Ovunque ci sono posti di blocco e si percepisce che noi che siamo qui per aiutare e cercare di capire cosa succede siamo visti come persone pericolose che cercano di favorire l’immigrazione clandestina. D’altronde neanche la delegazione europea è riuscita ad entrare, né altri membri di ong o organizzazioni umanitarie”.
A parlare è Corrado, volontario di Operazione Colomba, il Corpo Nonviolento di Pace della Comunità Papa Giovanni XXIII che assiste le persone in difficoltà in zone di guerra e non solo, condividendo la quotidianità.
Quarantadue anni e già una lunga esperienza di due anni nei campi profughi in Libano, poi più volte a Lesbo, Corrado nelle ultime settimana ha sentito forte l’esigenza di partire per il confine tra Polonia e Bielorussia per capire cosa stesse succedendo.
«Io e un altro volontario siamo arrivati venerdì 26 novembre e siamo rimasti per quattro giorni. Dopo di noi è arrivato subito un altro gruppo e ora mi sto organizzando per ripartire.
Da alcune settimane ci arrivavano voci dal Libano di questo tragitto attraverso la Bielorussia. All’inizio sembrava fantascienza, ma poi abbiamo visto che era reale e soprattutto abbiamo subito capito la drammaticità della situazione.
Quando siamo arrivati non sapevamo bene cosa aspettarci perché le voci che giravano erano ancora poche, e, soprattutto perché è praticamente impossibile entrare in contatto con queste persone.
C’è una zona rossa militarizzata tra i due confini, di tre chilometri, che è assolutamente vietata, stretta tra le due frontiere, quella Bielorussa e quella polacca, chiuse dal filo spinato. Per chi si avventura c’è l’arresto immediato. Non siamo riusciti ad incontrare nessuno, ma ci arrivavano in continuazione notizie di persone nascoste nei boschi in situazioni di emergenza. Abbiamo raccolto materiale di soccorso ma non abbiamo potuto darlo direttamente alle persone in difficoltà, solo lasciarlo nella zona di aiuto consentita.
Nei giorni del viaggio, le temperature in quell’area sono già attorno agli zero gradi. Rimanere vivi senza vestiti adeguati, senza ripari, e bagnati dalla pioggia e dalla neve è molto difficile.
Chi riesce a uscire dalla frontiera bielorussa cerca di nascondersi e vivere nei boschi in mezzo a questa terra di nessuno, in attesa di un passaggio anche per settimane, col rischio da un lato di morire di freddo, dall’altro di essere catturati e rispediti indietro. Qui rimangono in attesa di un passaggio anche per settimane, senza essere preparati a queste temperature, senza cibo, né acqua. C’è chi muore nell’attesa, ma i numeri non si conoscono perché è impossibile entrare in questa zona e parlare con loro.
C’è chi poi, per disperazione, chiama i soccorsi, ma con la consapevolezza che, dopo le cure in ospedale, si viene espulsi dal paese. Nessuno vuole chiamare. In teoria chi è in ospedale, soprattutto i siriani, avrebbe diritto di fare richiesta di asilo. Ma non solo non è garantito l’esito dell’iter, la maggior parte delle volte non viene neanche data la possibilità di fare la domanda. Abbiamo sentito di persone riportare al confine e respinte dopo essere state soccorse, per cui la gente ha paura di chiamare.
Questa non è l’unica situazione paradossale. Il grosso delle persone è bloccato sul confine bielorusso, ma anche lì le persone non possono girare liberamente. Anzi, chi viene bloccato sul confine polacco e rimandato indietro, spesso rischia di non poter rientrare in Bielorussia e si trova a vivere in mezzo ai boschi in questa terra di nessuno tra i due fili spinati.
C’è poi un altro problema, molti dei siriani in fuga vengono dai campi profughi in Libano, e quindi per loro il rimpatrio significa essere portati in Siria, il paese da cui sono fuggiti e in cui rischiano la vita per la loro opposizione al regime. Noi occidentali sopravvalutiamo spesso il motivo che spinge le persone a venire in Europa, come se fossero attratti qui per chissà quale motivo. In realtà la maggior parte delle volte sono più forti le ragioni che li spingono fuori da casa loro: le guerre, la violenza, le persecuzioni che rendono impossibile la vita a queste persone nel loro paese e soprattutto la possibilità di tornare.
Per cui in questa situazione tragica le persone devono decidere se tentare l’attraversamento del confine, col rischio di essere presi e rimpatriati, oppure se nascondersi nei boschi nella speranza di trovare un passaggio per entrare in Europa, col rischio del freddo che diventa sempre più
insopportabile.
Venerdì ripartiamo per il confine, per cercare di portare un supporto a chi sta vivendo questa tragedia che con l’avvicinarsi dell’inverno può solo peggiorare.
Ma anche per chi cerca di portare il proprio supporto la vita non è facile.
Ci sono molti gruppi di polacchi che si sono messi in gioco per dare aiuti materiali, solidarietà e supporto legale, ma c’è un clima diffuso di paura e di ritorsione. Ci sono pressioni fortissime. Molti sono realmente terrorizzati e non è facile trovare contatti e collaborazioni.
Noi vogliamo tornare per continuare a tenere un occhio e dare supporto, ma bisogna capire cosa succede, perché la situazione evolve molto velocemente. La Bielorussia ha interrotto i voli diretti e i visti rilasciati.
Poi vogliamo tornare perché non c’è nessuno a monitorare, e non possiamo sapere quante persone sono in difficoltà. Si parla di decine di dispersi. I numeri non possono essere raccolti, ma l’aspetto più amaro è che sarebbero numeri facilmente gestibili per l’accoglienza da parte dell’Europa, eppure, per una scelta politica, si preferisce abbandonarle in modo così brutale e consapevole.»