E se al posto di Steve McQueen ne La grande fuga ci fosse stato Rick Dalton? Una delle scene più gustose del nono film di Quentin Tarantino (il regista ci tiene a precisare la numerazione) riguarda proprio il film di John Sturges, con uno di quei gustosi intrecci creativi resi possibili oggi dalla tecnologia.
Rick Dalton, attore in serial western in declino, è frutto della fantasia dell’autore di Pulp Fiction ed è il protagonista, interpretato da Leonardo Di Caprio, assieme al suo partner, cascatore e tuttofare Cliff (Brad Pitt), di questa ironica, vivace e articolata vicenda ambientata nel 1969 nella “mecca del cinema”.
È l’anno di Woodstock e dello sbarco sulla luna, ma è anche l’anno di una feroce pagina di cronaca nera: l’uccisione di Sharon Tate, attrice sposata con Roman Polanski, e alcuni amici, da parte della setta del folle Charles Manson.
Sharon Tate nel film c’è (la interpreta Margot Robbie), si intravede pure Polanski (finto), passa anche Manson (finto pure lui), ma la storia qui prende tutt’altra piega, come già avvenuto in Bastardi senza gloria. Del resto il titolo evoca la favola e favola sia, in questo pimpante omaggio al cinema e alla televisione di altri tempi, dove si intrecciano serial totalmente inventati e telefilm di successo come Mannix e FBI, dove si ricordano i tempi del cinema di serie “B”, con doverosa puntata italiana e citazioni dai “western spaghetti” e dagli “pseudo 007”, tra Sergio Corbucci ed Antonio Margheriti, il tutto frullato da quel diavolaccio di Tarantino che conosce il cinema e tutto quanto ruota attorno ad esso come pochi e si diverte un sacco ad inserire riferimenti a destra e manca.
Musica a palla con colonna sonora come si conviene, nella celebrazione di un’arte in formato “divertimento popolare”.