Povero Trebbiano, stretto tra il re Sangiovese delle tavole riminesi (per chi ancora sceglie le etichette di questo territorio) e gli altri bianchi nostrani dal sapore più fruttato e deciso! Snobbato dal mercato, poco valorizzato dagli stessi produttori. Figlio di pregiudizi che in Italia lo vogliono come un vino di poco spessore, da tutti i giorni, ma in realtà con buoni risultati oltre confine.
In provincia, negli ultimi anni, complici gli incentivi per i tagli ed i rinnovi delle viti, “si è verificato un abbandono quasi totale di questo vitigno a favore del rosso e di altri bianchi come il Pignoletto, lo Chardonnay e la Rebola” spiega il responsabile di Confagricoltura Rimini, Roberto Bacchini. In altre province, come ad esempio la vicina Forlì, la crisi del Trebbiano, se così possiamo definirla, non ha raggiunto questi livelli. “Il problema è che ci stiamo confrontando con altri prodotti, come la birra, che cambiano continuamente in caratteristiche e gusto” prosegue Bacchini. Così anche il vino, per essere della partita, ha bisogno di un’alta qualità e identità.
“Il Trebbiano non è stato mai blasonato come invece avrebbe meritato – è l’analisi di Gaetano Callà, presidente del consorzio Strada dei vini e dei sapori dei colli di Rimini -. È un prodotto quasi scomparso dalle nostre tavole, preferito dall’Albana, nelle versioni dolce, amabile e secco, dal Pagadebit secco e dal Rebola: il Colli di Rimini sta andando benissimo ed è diventato il primo vitigno assoluto nella commercializzazione”.
Nonostante tutto, però, per Callà il Trebbiano resta ancora un gran vitigno. E non è il solo esperto a pensarla così. Il colosso romagnolo del calice, il Gruppo Cevico, che ha assorbito anche l’ultima cantina sociale riminese – la Colli di Rimini appunto – non ha smesso di credere in questo prodotto. Anzi. Da alcuni anni accanto al classico Trebbiano fermo ha affiancato le varianti frizzante e spumante. Anche altri produttori, al di là di Cevico, hanno già messo sul mercato bottiglie di spumante Trebbiano, ma “vendendole” non come uve Trebbiano ma genericamente come uve bianche della Pianura Padana. Oggi, però, sembrano essersi aperti maggiori spiragli per una commercializzazione di questa etichetta con la denominazione esplicita di Trebbiano.
Ne è convinto Pierluigi Zama, responsabile enologico di Cevico e presidente di Assoenologi Romagna.
Da quando Cevico ha iniziato ad interessarsi a questa tipologia di Trebbiano?
“Da una quindicina di anni abbiamo cominciato ad introdurre questa tipologia nelle linee di produzione. Oltre al frizzante da una decina di anni abbiamo avviato la produzione anche della tipologia spumante”.
Di certo c’è un aspetto da affrontare: al di là delle potenzialità che il Trebbiano può avere in termini di versatilità e qualità, la Romagna ha sempre avuto un rapporto “particolare” con questo vino…
“La viticoltura romagnola è rappresentata, per oltre il 60%, dal Trebbiano (in pianura si arriva a sfiorare l’80%) ed anche in virtù delle sue peculiarità di vino abbastanza neutrale nel corredo aromatico e rese ad ettaro medio/elevate, ha da sempre ricoperto il ruolo di base per tutti i tipi di consumo; è, infatti, un vino che si presta sia al consumo come fermo ma anche come frizzante, spumante ed in molti casi rappresenta anche la base di Vermouth e aperitivi a base di vino. Ecco perché per molto tempo non si è affrontato il tema della valorizzazione come vitigno”.
Ora cosa è cambiato?
“Con il cambio delle abitudini alimentari, con una crescente attenzione del consumatore rispetto ai vitigni autoctoni ed il territorio di origine, emerge chiaramente come il Trebbiano possa rappresentare una vera «novità» nel panorama enologico internazionale. Deve crederci tutta la filiera specificando il nome Trebbiano in etichetta con l’orgoglio che merita, sia che rappresenti un vino IGP sia che rappresenti un vino DOP”.
Cevico cosa sta facendo per valorizzare questo vitigno?
“Assieme ai propri associati, sta lavorando molto con progetti specifici, investendo per migliorarne la qualità, cercando di rispettarne le caratteristiche intrinseche”.
Cioè?
“Il Trebbiano non deve essere vendemmiato con gradazioni zuccherine elevate, anzi, si esprime al meglio se raccolto in condizioni di grado zuccherino compreso tra i 10 e 11 gradi e con elevato tenore di acidità. Questo preserva la freschezza, il colore brillante ed i profumi leggeri e floreali. Il Trebbiano può rappresentare una svolta per la Romagna, in quanto si presta benissimo ad un trend di consumi basato su vini buoni ma anche semplici, immediati che diano la possibilità di essere consumati con modalità “trendy”. Un nostro spumante di Trebbiano (il Vollì) nel 2012 ha vinto la medaglia d’oro al Concorso Internazionale di Bruxelles piazzandosi davanti anche a molti Champagne…”.
Si punta a promuovere il Trebbiano frizzante anche all’estero? Quali sono i mercati più ricettivi?
“Il Trebbiano, sia frizzante che spumante, è molto apprezzato all’estero e nel nostro caso sono una ventina i paesi che lo importano. In modo particolare la Cina, il Giappone, la Russia ed altri paesi dell’Est Europa si stanno mostrando molto ricettivi per questo prodotto fresco e di pronta beva”.
Una curiosità tecnica: con quale procedimento si rende frizzante un vino tradizionalmente fermo?
“I metodi che noi utilizziamo sono due. Uno è lo Charmat: il Trebbiano fermo, posto in autoclave assieme a mosto concentrato e lieviti selezionati, attiva una seconda fermentazione che determina lo sviluppo naturale delle bollicine. L’altro metodo è quello Classico o Champenoise, dove tale rifermentazione avviene direttamente in bottiglia. Con il metodo Charmat occorrono dai 2 ai 3 mesi per produrre un vino frizzante o spumante mentre con il metodo classico, di mesi, ne occorrono almeno nove”.
Il riferimento di Zama alla necessità che l’intera filiera creda in questo prodotto “specificando il nome Trebbiano in etichetta con l’orgoglio che merita” non è casuale. “Il Trebbiano è il nostro petrolio e il prodotto c’è. Occorre solo più coraggio, anche nel mettere da parte tutti i pregiudizi che da sempre lo accompagnano – non all’estero, ma in Italia – come vino ’grossolano’”. Il bianco riminese dimenticato riuscirà a riscattarsi?
Alessandra Leardini