Storie di puro sacrificio. Siamo negli anni immediatamente precedenti e successivi alla seconda guerra mondiale, e tra i tanti pescatori riccionesi si era diffusa un’usanza particolare, “mutuata” dalla società contadina: quella di migrare, fuori stagione, in altre zone per continuare e diversificare la pesca, in modo da provvedere ancora di più alle proprie famiglie. A quale prezzo? Una vita spartana, immersa nella natura, senza alcuna distrazione e lontani dalla famiglia per mesi. Sono le storie dei “pescatori migranti” riccionesi, raccontate da Carlo Volpe nel libro Gente e mestieri del litorale di Riccione (2010).
Un racconto preciso e affascinante, che fotografa un fenomeno, e soprattutto una predisposizione al sacrificio, di uomini di altri tempi.
“Diversi riccionesi si trasferivano con le loro barche sui lidi ravennati dalla fine dell’estate a poco prima delle festività natalizie. Come accadeva nella società contadina, anche per i nuclei che vivevano a ridosso del litorale succedeva che il capo famiglia diversificasse i lavori suoi e dei figli per raccogliere altri eventuali cespiti utili al mantenimento del nucleo familiare e della propria casa. I riccionesi, così come i bellariesi, dotati di una modesta flottiglia di piccole imbarcazioni che operava in acque molto prossime alla costa, praticavano in special modo la pesca con il cogollo e con altri sistemi elementari (tratta, saltarello).
Sistemazioni… spartane
La migrazione stagionale sui lidi ravennati allora deserti, obbligava i pescatori vaganti a sistemarsi in capanne di canne che costruivano fra le dune naturali di sabbia (foto piccola), i mùntalòun, al confine con la pineta. La natura provvedeva a dare i suoi segni stagionali e l’arrivo dell’autunno si percepiva quando, a fine agosto, appariva lo svasso minore, e fisòul, una varietà di uccello migratore acquatico. La capanna disponeva di poche cose: un focolare, dove si cuoceva il misero desco costituito da polenta bianca e qualche pesce e un giaciglio fatto con foglie di granoturco. Il vestiario era il più delle volte confezionato con tessuti grossolani: scarti dei sacchi di juta, cotone o fustagno per i pantaloni (i calzòun) e la capotta, che veniva poi resa impermeabile con una impregnatura di olio di lino cotto (i’ ìnziéreda). I calzari, stivali ricavati da camere d’aria di camion molto usate e piene di pezze, incollate con mastici che male univano le parti, erano definiti i papoùzòn e usavano solitamente zoccoli di legno, intagliati a mano, rinforzati nella suola con pezzi di gomma ricavati da scarti di copertone di bicicletta. Di notte mancava la luce elettrica e si ripiegava su un lumicino ad olio o sul lume a petrolio e le immancabili candele.
Routine quotidiana e organizzazione
Il più delle volte il marinaio si buttava in mare a calare o salpare la rete al mattino di buon’ora, quando rimanevano bloccati nelle maglie pesci che migravano lungo costa finendo nella sacca del cogollo, e cùlatòn. Il pesce veniva poi diviso: le anguille più belle e di buona taglia venivano riposte vive nella marotta (la tipica barchina a triangolo con tanti fori che rimaneva a galla pur essendo totalmente immersa in acqua), per poi essere vendute nei centri di provenienza dei marinai alla vigilia di Natale. Le altre specie ittiche venivano raccolte e uno dei pescatori si assumeva l’incarico di raggiungere il mercato di Ravenna per vendere il pescato. A questa stessa persona si delegava anche il compito di acquistare le derrate alimentari e le altre poche cose necessarie ai pescatori che rimanevano a proseguire le operazioni di pesca. Al ritorno, pagando gli acquisti con parte del ricavato dalla vendita, consegnava ai compagni sigarette ed altro materiale di conforto. Il rimanente veniva gestito al risparmio e a tal proposito si nominava un addetto alla gestione dei ricavi.
Il pescato consisteva oltre alle anguille, in altre varietà di pesci, quali rombi, passere, cefali, sgombri, branzini, rigatine, saraghi, ombrine, corbelli, corvine, e nei cogolli con le maglie più fitte, per tutto il mese di settembre rimanevano catturati triglie, sardoncini, sardoni, baganelli, acquadelle e aguglie (ràgùsel). Quando avveniva una buona pescata ci si poteva concedere anche il consumo di un po’ di carne di maiale, si beveva vino e si cantava fino a tardi, accantonando per un momento il pensiero della famiglia e delle preoccupazioni di casa. La vita trascorreva così, in questa zona solitaria, dove scorreva molta acqua dolce e le correnti portavano molto pesce, le battute ironiche e gli scherzi non mancavano mai, come non mancava mai la collaborazione reciproca anche tra pescatori. La sera si mangiava poco e ci si coricava subito perché non esistevano distrazioni di sorta e non si disponeva neanche di una radio.
I contatti con le famiglie
Le notizie dalle famiglie si avevano con l’incontro degli equipaggi riccionesi in transito temporaneo, che a volte capitavano e si fermavano al moletto di ponente di Portocorsini, oggi inizio avamporto di Ravenna. Quando si verificava questo straordinario evento era gran festa, anche perché arrivavano i pacchi con non poche cose mangerecce e tutto era diviso.
Nei pacchi c’era sempre un contenuto prezioso: una lettera della moglie o della mamma, i ricambi e gli immancabili guanti e calze di lana realizzate ai ferri dalle donne di famiglia.
L’amicizia e la solidarietà fra tutti questi marinai, come anche il rispetto per l’ambiente e per la natura era una caratteristica che accomunava tutti”.