“Mia madre con quel piatto in mano non sapeva se darlo a me o alla mia sorellina. Non potevo rimanere e sono scappato a tredici anni dall’Albania”, racconta Schamir. “Sono stato strappato dal Brasile a sei anni. Con tanta sofferenza, non è giusto. Lo so non è una scusante, ma dentro di te giustifichi il male che compi”, testimonia Paolo. “A casa mia, botte, urla, separazione. La prima volta che mia madre mi ha rimboccato le coperte e dato un bacio avevo 14 anni”, svela Max.
Perché i carcerati prima ancora di essere dei carnefici sono delle vittime. Lo ripete spesso anche Giorgio Pieri, da anni impegnato a sostenere i carcerati che intendono incamminarsi sulla strada della rieducazione nell’esperienza delle due case di riabilitazione “Madre del Perdono” di Montecolombo. Spesso la loro rabbia è cresciuta per via dell’ambiente delinquenziale, per commettere reati: da quelli minori a quelli capaci di portarti via per sempre la libertà. Ma è proprio quella rabbia malata che va curata, lenita. E il carcere non è la soluzione. Anzi, è il deterrente per non cambiare più, per continuare a soffrire senza pace.
Lo sanno bene i volontari dell’associazione “Itaca” di Rimini da anni attivi negli svariati percorsi di recupero dei carcerati. La scorsa settimana hanno organizzato l’incontro “Storie da dentro – Percorsi riabilitativi dentro e fuori le carceri: le misure alternative alla pena”. Sulla scia del libro Storie da dentro, scritto da Claudio Fabbrici e Franca Berti – in cui si raccontano storie di vita e malavita – si è entrare nel merito del trattamento del condannato in ambiente libero: se costituisce un efficace strumento per decongestionare le carceri e se esprime soprattutto la presa d’atto della necessità di specifici interventi di aiuto e sostegno psicopedagogico, dentro e fuori l’istituto penitenziario, attraverso personale con competenze rieducative finalizzate a ridurre il rischio di recidive. “Credo che il lavoro di pubblica utilità sia finalizzato a permettere al soggetto un percorso elaborativo della propria esperienza di detenuto ed è riabilitativo, in termini riparativi, nei confronti della comunità. – spiega Maurizio Cottone, presidente dell’associazione – Per questo è molto importante il ruolo esperenziale e costruttivo delle organizzazioni di volontariato presenti sul territorio riminese”.
L’associazione “Papillon” ad esempio aiuta i detenuti nel reinserimento della società a migliorare le difficili condizioni di chi si trova in un carcere affollato, attraverso la distribuzioni di libri, la formazione scolastica, corsi di cucina e pittura. Giorgio Pieri da 17 anni segue il servizio “carcere” dalla Comunità Papa Giovanni XXIII.
Gestisce direttamente nel riminese due realtà d’accoglienza con circa 40 persone che invece di scontare la pena in carcere lo scontano nelle strutture della comunità. La questione viene osservata da un altro punto di vista: “Dobbiamo fare una netta distinzione: come si tratta l’uomo che sbaglia nella società del profitto e come quello che sbaglia nella società del gratuito. – spiega Pieri – Le carceri di oggi fanno parte della società del profitto. L’egocentrismo genera la dinamica del profitto. Se l’altro non serve è ingombro da eliminare. Se sbaglia va messo in carcere, perde la natura di persone e diventa «cosa» sui cui guadagnare”. Una strada alternativa c’è.
“Il cambiamento è possibile, perché come ripeteva don Oreste Benzi: «Nello sbaglio di uno c’è lo sbaglio di tutti. Per recuperare uno è necessario il coinvolgimento di tutti»”. Esemplare ed efficace il percorso educativo attuato, il cosiddetto Cec (comunità educante con i carcerati): dal 1990 sono stati accolti oltre 1500 detenuti. Oggi se ne contano circa 300, non solo a Rimini, ma anche in Toscana, in Veneto e in Sicilia. Non si tratta né di buonisimo, né di assistenzialismo “ma di un percorso educativo esigente e impegnativo per rimuovere alla radice le cause che inducono sentimenti e atteggiamenti delinquenziali. È dura, tant’è che più d’uno ha preferito ritornare alla brandina in cella piuttosto che continuare”.
Il viaggio per ritornare a una nuova vita si sviluppa in tre fasi. La prima riguarda il passato del recuperando: è chiamato a riflettere sul proprio vissuto e con l’aiuto dei volontari si esercita nel cercare di diventare una persone diversa, rielaborando in primis la propria rabbia. Con la seconda fase si entra nel concreto, con attività legate alla formazione del lavoro e alla professionalizzazione. Infine, per capire se il recupero è andato a buon fine, il detenuto avrà la possibilità di provare la libertà e l’autonomia diurna con rientro serale. Finora il Cec ha funzionato. Ma si potrebbe fare ancora di più. Infatti, il sogno della Comunità è realizzare una struttura da 100 posti, “una realtà pioniera, replicabile, che rappresenti un’alternativa al carcere, se non per tutti almeno per una parte dei detenuti”.
Marzia Caserio