A Monaco al Teatro di Gärtner Platz ha debuttato una suggestiva Luisa Miller firmata dal regista Torsten Fischer
MONACO, 7 maggio 2023 – Come soffitto, uno specchio: variando ogni tanto l’inclinazione, permette un colpo d’occhio generale sul palcoscenico, quasi fosse una lente in grado d’indirizzare lo sguardo del pubblico su fotogrammi ben precisi. Il nuovo allestimento della Luisa Miller di Verdi realizzato da Torsten Fischer, che ha debuttato al Gärtner Platz Theater di Monaco, si avvale di pochissimi accorgimenti per delineare una cornice stilizzata e geometrica, di grande fascino visivo.
Il regista tedesco pone in primo piano l’odio insanabile, legato alle diverse appartenenze sociali, di personaggi arroccati sulle proprie posizioni (come spesso avviene nel teatro di Schiller da cui l’opera è tratta) e non disponibili ad alcun ripensamento. Nulla di più eloquente, dunque, delle uniformi militari o dei simboli religiosi per rappresentare la distanza incolmabile che li separa.
All’inizio lo specchio ci mostra una terra desolata dove giacciono corpi di uomini, verosimilmente soldati caduti in una guerra che ha lasciato solo macerie, ma è soprattutto la scelta dei colori a sottolineare l’assenza di ogni possibile mediazione: scene e costumi (firmati da Herbert Schäfer e Vasilis Triantafillopoulos) restituiscono un bianco e nero quasi senza sfumature intermedie. In questo universo prevalentemente maschile, l’unica nota cromatica arriva da un enorme dipinto, con una figura femminile acquerellata, utilizzato come quinta mobile.
Appartenenti a diverse classi sociali, la coppia Luisa e Rodolfo viene duplicata da due ragazzi, mostrando come il loro amore sia nato durante l’adolescenza: tutt’altro che spensierata, però. Ed è inquietante vedere il giovanissimo mimo Elias Fliaster che, da ragazzino cresciuto troppo in fretta, si aggira in cilindro – dai tempi di Brecht simbolo del cuore turpe dell’aristocrazia affaristica – dopo aver assistito all’omicidio compiuto da suo padre, così come è straziante la scena in cui Luisa bambina (Laura Schwalbe) indossa l’abito da sposa, inseguendo un sogno che non potrà mai coronare.
La lettura registica procede sempre in stretto, profondo accordo con la musica: bellissima l’immagine riflessa nello specchio – uno dei momenti più suggestivi dello spettacolo – dell’orchestra che tace mentre in palcoscenico gli interpreti sono impegnati nel quartetto a cappella del secondo atto. Anthony Bramall, sul podio del Teatro di Gärtner Platz, ha diretto con sicuro mestiere, imprimendo un andamento incalzante e scorrevole all’esecuzione, fornendo un costante sostegno ai cantanti.
Un cast ben assortito e nell’insieme omogeneo ha assecondato il disegno registico. Il soprano Mária Celeng è stata una protagonista che in mancanza di un’adeguata rotondità vocale, sempre più evidente con il procedere dello spettacolo, è comunque riuscita a disegnare una Luisa credibile, combattuta tra l’affetto quasi morboso per il padre e l’amore per Rodolfo. Possiede un bello squillo tenorile e un’ottima dizione italiana Jenish Ysmanov, che sa restituire sul piano vocale tutta l’impulsività giovanile di Rodolfo. Peccato invece per Vittorio Vitelli – baritono che avrebbe l’idiomaticià dell’accento verdiano – palesemente in cattiva serata: il suo Miller ha un rapporto con la figlia dove la possessività paterna viene esasperata, fin quasi a entrare in antagonismo con l’uomo che ama.
Direttore e regista, consapevoli come uno dei vertici dell’opera sia lo scontro tra il Conte di Walter e il suo castellano Wurm, hanno posto grande attenzione a questa pagina: un duetto tra due bassi – che Fischer fa siglare da un patto di sangue – destinato a diventare un modello musicale per tanto Verdi futuro (Luisa Miller precede di poco la ‘Trilogia popolare’). Nei panni del Conte, il monumentale Alexaner Grassauer ha sfoggiato voce compatta e sempre omogenea: forse più avvezzo alle granitiche sonorità wagneriane che alla morbidezza del fraseggio verdiano, si è imposto con facilità sull’orchestra. Gli teneva testa un insinuante Levente Páll, dall’aspetto sinistro e dai modi viscidi: il malvagio Wurm – in italiano la parola significa verme – che in precedenza aveva strisciato fino alla borsetta abbandonata della duchessa Federica (Anna Agathonos, non sempre a fuoco vocalmente ma di grande resa scenica nel ruolo di pretendente ricca e matura), fiutando quell’oro che forse poteva contenere, in un rimando quasi wagneriano. E sono state davvero sequenze di notevole teatro.
Giulia Vannoni