Al Teatro dell’Opera di Roma l’ottima direzione di Roberto Abbado esalta Lucrezia Borgia di Donizetti
ROMA, 20 e 21 febbraio 2025 – La fama di avvelenatrice che ha accompagnato Lucrezia Borgia, seppure limitativa della complessità storica del personaggio, è congeniale al palcoscenico. Ad aver puntato su questa mitologia è stata soprattutto la tragedia di Victor Hugo (1833), cui si è ispirato Felice Romani nella stesura del libretto per l’opera di Donizetti andata in scena alla Scala nel dicembre di quello stesso anno. Nel melodramma però le sfumature più scabrose – intrighi, assassinî, incesti e veleni che hanno scandito la vita di questa figura leggendaria – scivolano sullo sfondo, mentre a dominare è l’idea che il riscatto di una donna, per quanto malvagia, possa avvenire attraverso l’affermazione dell’amore materno. La stessa cosa succederà qualche anno dopo nel Rigoletto verdiano, dove l’affetto paterno nobilita la deformità fisica del protagonista (vicenda, non a caso, tratta da un altro dramma di Hugo).

Titolo un tempo non così raro come adesso, Lucrezia Borgia è approdata al Teatro dell’Opera di Roma in un nuovo allestimento firmato da Valentina Carrasco. Con le scene di Carles Berga, che si riducono unicamente a una serie di drappi e tendaggi, e i costumi un po’ incongrui di Silvia Aymonino, la regista argentina impagina uno spettacolo scabro, arricchendolo con poche trovate, che peraltro stentano a legarsi fra loro sul piano interpretativo e visuale. Appaiono tali le schiene dei prigionieri marchiate con le lettere alfabetiche della parola Borgia, in risposta alla provocazione di Gennaro, che aveva eliminato la B dal nome del palazzo di famiglia (facendolo così diventare Orgia), come pure le tante maschere che si affacciano ovunque. I personaggi spesso ne indossano due, una sul volto e una sulla nuca: forse alludono a quella doppiezza che ciascuno ha nei confronti della vita, o per scelta o per costrizione, a cominciare proprio dalla protagonista. Non va dimenticato infatti che, dietro alla nomea di avvelenatrice, Lucrezia Borgia – una volta divenuta Duchessa d’Este – contribuì al benessere della città di Ferrara e allo splendore della corte, attirando nella sua orbita artisti di straordinario valore.
A impreziosire lo spettacolo è stata però soprattutto l’esecuzione musicale, che ha alternato due interessanti cast, dove – una volta tanto – è il secondo a vincere nettamente il confronto. Nel ruolo di protagonista Lidia Fridman ha sfoggiato doti non comuni. Sfruttando la sua facilità nel registro grave, che però non va mai a discapito della sicurezza in acuto, il giovane soprano russo ha disegnato una Borgia aspra, quasi tagliente, comunque di notevole caratura drammatica. Molto più morbida e suadente la vocalità di Angela Meade, che grazie all’ottimo controllo dei sontuosi mezzi vocali ha interpretato un personaggio più rassicurante e materno (per lei la Carrasco prevede anche la sola differenza tra le due serate, quella di prendere in braccio il bambino al termine della sua accorata aria conclusiva).
Unico tra gli interpreti principali in comune alle due recite, il tenore Enea Scala ha sostituito il collega del secondo cast, accollandosi l’onere di più serate consecutive (nella seconda ha però tagliato l’aria, peraltro riscoperta di recente, Anch’io provai le tenere): il suo Gennaro sfodera un apprezzabile piglio scenico, a fronte di un’emissione un po’ discontinua.
Notevoli le differenze tra i due interpreti di Alfonso d’Este, terzo marito della protagonista: nel primo cast Alex Esposito ha configurato un Duca sopra le righe, incline a un’isteria che ha ben poco di regale, a causa di suoni forzati e aggrediti per gli evidenti limiti della voce. Sempre a suo agio nella scrittura donizettiana, invece, Carlo Lepore ha saputo imprimere ad Alfonso tratti autenticamente aristocratici, cesellando un personaggio di eleganza glaciale – esemplare nella sua aria Vieni la mia vendetta – in virtù di una notevole stabilità di suono e del dominio delle colorature sfoggiato nella cadenza.
Nei panni en travesti di Maffio Orsini il corretto mezzosoprano Daniela Mack ha ceduto il posto, nel secondo cast, a Teresa Iervolino, sempre molto espressiva grazie al bel colore vocale.
Tra i comprimari, invariati nei due cast e assai ben delineati dalla direzione musicale, tanto da renderli riconoscibili nonostante le maschere sul volto, bisogna ricordare i quattro amici di Gennaro e Maffio: le due voci gravi appartenevano ad Arturo Espinosa e all’inappuntabile Alessio Verna, mentre i due tenori erano Eduardo Niave e Raffaele Feo. I ruoli di Gubetta e Rustighello (le due anime nere di Lucrezia e Alfonso) erano interpretati da Roberto Accurso, baritono un po’ troppo pallido timbricamente, e dal tenore Enrico Casari.
Il punto di forza di questa Lucrezia Borgia è stata comunque la bacchetta di Roberto Abbado. Il direttore non si è limitato ad ottenere cantabilità e scorrevolezza dall’orchestra, ma ha creato una tensione ininterrotta capace di tener avvinto l’ascoltatore. Soprattutto, la sua lettura ha colto e valorizzato le innumerevoli novità che affiorano nella scrittura donizettiana e che, di lì a poco, Verdi avrebbe reso del tutto esplicite. Abbado ha dimostrato inoltre flessibilità nella scelta dei tempi, calibrandoli in relazione alle fisionomie vocali degli interpreti: incalzanti e nervosi con il primo cast, più morbidi e allargati con il secondo. Un’esecuzione tanto più significativa perché di solito Donizetti viene affidato – dopo la scomparsa del grande Gavazzeni – a bacchette modeste e dai limitati orizzonti storico-musicali. Un segnale positivo per il futuro?
Giulia Vannoni