I bambini possono incontrare molto presto la sofferenza, percepirla e venirne profondamente segnati. A distanza di anni, quante mamme nell’osservare come ogni loro figlio abbia sviluppato un proprio modo di affrontare la vita, con maggiore o minore serenità e distacco – sono pronte a trovarne le cause nelle vicende, tristi o serene, che avevano contrassegnato i mesi della loro gravidanza e il periodo successivo alla nascita del figlio.
Come è possibile? Ne parliamo con Ida Finzi, psicologa e psicoterapeuta, che, insieme a Federica Stortoni, ha affrontato il problema prendendo lo spunto dall’esperienza delle mamme migranti, al Convegno internazionale su Depressione e posizione depressiva nella prima infanzia, organizzato dalla fondazione Benedetta D’Intino il 2-3 ottobre.
Per una donna immigrata, perché è così critico diventare madre in terra straniera?
“In tutte le culture cosiddette tradizionali il ruolo materno è sostenuto da relazioni sociali, che sono di fondamentale importanza: l’identità di madre si struttura attraverso un sostegno di gruppo delle donne che accudiscono la neo-mamma perché a sua volta sostenga il bambino. Tutto il contesto sociale collabora e contribuisce allo svolgimento di tale funzione. Il bambino è inviato dagli antenati, dall’Invisibile e deve essere umanizzato, vale a dire deve essere accompagnato a scoprire gradualmente il mondo: le conoscenze, le credenze, le emozioni, il modo di esprimerle che caratterizzano la sua cultura di appartenenza. Questo è un compito collettivo, non solo della madre, che va accudita e sostenuta in questa delicata funzione assieme al figlio.
L’ umanizzazione del bambino, rende il periodo perinatale, che precede e segue immediatamente la nascita, molto critico per la donna e il figlio, e non solo dal punto di vista sanitario, come in Occidente. Ad esempio, nella cultura islamica il bambino, in questa fase, va protetto perché si ritiene sia particolarmente vulnerabile ai Jiin, spiriti per lo più maligni, anche se in certi casi benevoli e protettivi, che possono interferire con l’esistenza del bambino stesso o al malocchio espressione di invidia o gelosia. Il ruolo protettivo dell’adulto si declina attraverso rituali di azioni tutelanti, come seppellire la placenta in un luogo segreto o la scelta del nome da parte degli anziani della famiglia allargata secondo le norme condivise dalla collettività”.
Cosa accade allora quando si partorisce lontano dal proprio contesto culturale?
“Tutto questo si perde. Si produce una frattura tra la cultura delle proprie origini e quella del paese in cui si è andati a vivere. Il modo di rapportarsi al bambino non è più sostenuto dal gruppo di appartenenza, che, così, svolge anche la funzione di riconoscere e assegnare uno spazio al bambino all’interno del gruppo sociale, collocando il nuovo venuto in una rete di relazioni famigliari e sociali ben definite. Nel paese ospite le donne -non solo immigrate – si trovano, specie nei grandi centri urbani, a costruire in solitudine questa relazione con il bambino. Pensiamo allo sconcerto e allo spaesamento di fronte al bambino che, nei primi giorni, non si attacca facilmente al seno. Le frequenti chat tra neomamme non svolgono la stessa, calda, funzione di supporto fornito da una comunità tangibile. Inoltre, il modo di allevare il figlio (nutrirlo, tenerlo, svezzarlo, ecc.) nella nuova realtà si contrappone spesso radicalmente a quello appreso nel proprio paese di origine: la madre vive così una frattura e un conflitto tra la parte di sè che trova forza nelle proprie radici e la parte che si identifica con il nuovo mondo, dove però non ha ancora punti di riferimento significativi che le consentano di giungere a degli adattamenti ed integrazioni tra i due saperi senza rompere con il passato. In occidente, la gravidanza e il parto sono molto medicalizzati e molte azioni mediche sono percepite come invasive e non protettive per l’utero, come ad esempio l’ecografia. Il taglio cesareo, poi, può essere vissuto come una vera effrazione, una profanazione dell’andamento naturale del parto, che sminuisce e depriva la femminilità della donna”.
Si verifica dunque una frattura tra la cultura e le credenze passate e quelle presenti non più sostenute però dal gruppo di appartenenza.
“In occidente, prevale l’idea che il bambino appartenga ai genitori non alla collettività. Qui i padri sono considerati interlocutori attivi nella cura del bambino, cosa che non accade in altre culture, dove vengono attribuite loro altre funzioni, prevalentemente all’esterno della casa e il loro intervento subentra più tardi nello sviluppo. L’uomo, se immigrato nel paese ospite da più tempo rispetto alla moglie, ha in genere una competenza linguistica maggiore della donna, che lo porta a tenere i contatti in prima persona con le figure mediche e sanitarie, funzione che non svolgerebbe nel suo paese. Questo fa sentire la donna espropriata di una competenza che nella sua cultura è di esclusivo appannaggio femminile”.
Che riflessi ha sul rapporto della donna con il neonato?
“Specie in occasione del primo parto in terra straniera, quando la donna non ha ancora risolto il conflitto lacerante tra le due appartenenze, emergono nella madre e nel bambino aspetti depressivi legati a questa rottura di continuità tra le radici materne e la nuova realtà. Lei stessa si sente estraniata e non sa in quale realtà collocare il bambino, che resta sospeso e oscillante come la madre tra due mondi.
La donna si sente una madre incompetente e quindi si ritira in sé, evitando il contatto con il figlio. Il bambino, privato delle necessarie stimolazioni materne, ha difficoltà a regolare i ritmi di sonno, veglia, alimentazione e a strutturare un emergente senso di sé. Queste manifestazioni depressive sono il più delle volte la risposta reattiva al trauma migratorio che ha spezzato il legame tra il passato e il presente, Il rischio è che, nei Servizi, queste manifestazioni vengano trattate, anche farmacologicamente, come sintomi psichiatrici”.
Come si può intervenire?
“I Servizi per la gravidanza e parto, deputati all’accoglienza della famiglia immigrata, prevedono la presenza di una mediatrice linguistico culturale che, innanzi tutto, ridà alle donne uno spazio di parola. È questa figura che media la comunicazione tra il professionista e la donna, rendendola parte attiva dello scambio con il medico; non il famigliare, che potrebbe, anche involontariamente, emarginarla ed esautorarla.
Sono poi previsti gruppi multiculturali di preparazione al parto, in cui donne provenienti da diverse culture possano connettersi alle loro storie e riappropriarsene scambiando la loro esperienza con quella di altre donne. Si fornisce un supporto non solo ginecologico ma anche psicologico, fornendo un contesto in cui tutte le rappresentazioni culturali della maternità possono essere riattivate e valorizzate in modo da essere trasmesse come un bene ai propri figli.
Le donne, emigrate in Occidente, rischiano di svalorizzare la propria cultura nel confronto con quella del paese ospite, vergognandosi delle proprie origini e sentendo così di non avere nulla da offrire ai propri figli. Nell’ambito di uno di questi corsi multiculturali di preparazione al parto, è stato chiesto ad ogni donna di costruire una sorta di diario, il racconto del viaggio che le aveva portate in Europa.
Sono stati prodotti disegni, racconti, sono riemerse foto, tangibile documentazione dell’ incredibile e rischiosissima avventura che molte di loro avevano attraversato e superato. Le donne che ne emergevano non erano figure femminili, povere, inconsistenti, ma madri coraggio che potevano trasmettere ai propri figli una grande eredità: questa inaudita forza”.
Lucia Carli