Alla Semperoper di Dresda ha debuttato con grande successo Die Jüdin von Toledo, nuova opera di Detlev Glanert
DRESDA, 10 febbraio 2024 – Quando si alza il sipario, il contrasto tra le sonorità moresche dell’ud – una sorta di liuto appartenente alla tradizione araba – e il fragore della piena orchestra, dove le percussioni hanno un notevole rilievo, proietta immediatamente nell’atmosfera che si respira in Die Jüdin von Toledo (L’Ebrea di Toledo). La nuova opera di Detlev Glanert – compositore nato ad Amburgo nel 1960, la cui fama in Italia è legata al Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano – ha debuttato con grande successo alla Semperoper di Dresda. Il libretto fornitogli da un importante letterato come Hans-Ulrich Treichel (già autore per Henze, nonché per lo stesso Glanert), è tratto da un dramma scritto nel 1851 da Grillparzer, e in seguito abbondantemente rimaneggiato da altri scrittori: un soggetto che per la sua attualità tocca nervi scoperti, tanto più oggi.
La vicenda, che si snoda in una continua alternanza di momenti privati e scontri politici, prende le mosse dalla scintilla amorosa scoccata tra Alfonso VIII, re di Castiglia, e la giovane Rahel (lo stesso nome, e non sarà un caso, che ha la protagonista nella Juive di Halévy). La passione bruciante renderà il sovrano del tutto dismemore dei propri doveri di regnante – e, soprattutto, della necessità di contrastare l’esercito dei Mori – fornendo alla moglie Eleonora l’occasione per impossessarsi del potere. Ormai esautorato dalle proprie funzioni, Alfonso “rinsavisce” e rinuncia all’amore per la bella ebrea, accusata senza fondamento di essere una spia nemica, e si rassegna al fatto che venga uccisa.
Con infallibile senso del teatro, Glanert non si limita a seguire gli snodi del libretto, ma riesce – grazie alla musica – a insufflarvi vertici ora di estrema potenza drammatica, ora d’intenso lirismo. Di grande efficacia è soprattutto l’innesto di interludi, sia vocali che strumentali, con cui vengono scanditi i tempi della narrazione (tra un quadro e l’altro passano, di volta in volta, ore o giorni o settimane): l’ultimo – una trenodia di Esther sul cadavere della sorella – si snoda, con geniale espediente contrappuntistico, simultaneamente al fulmineo ultimo atto, che illustra la tetra cerimonia con cui vengono benedette le armi.
Si tratta, d’altronde, di un compositore che ha metabolizzato il grande repertorio operistico, rispetto al quale mantiene una certa continuità: come non pensare al canto fuori scena di Brangäne che interrompe il duetto del Tristano – uno tra i passi più struggenti dell’opera di Wagner – quando Esther (anche lei mezzosoprano, e pure lei in quel momento invisibile al pubblico) veglia sulla coppia di amanti? Altrettanto formidabile è la scena tra il re e la regina, dove si ristabilisce, dopo un lungo scontro, la loro alleanza di potere: vi aleggiano ancora inequivocabili memorie wagneriane (la resa dei conti tra Fricka e Wotan nella Valchiria, quando la moglie pretende che il marito faccia morire il figlio illegittimo di lui), ma anche verdiane, con l’inevitabile rimando al duetto tra Macbeth e la Lady. Con la fondamentale differenza, peraltro, che alla sterilità della coppia omicida verdiano-shakespeariana qui si sostituisce il dramma di un figlio malato di mente, che ha incrinato senza scampo il matrimonio.
L’esecuzione poteva contare sulla guida sicura e precisissima dell’inglese Jonathan Darlington, che ha saputo trarre dalla magnifica Staatskapelle di Dresda e dall’ottimo coro (preparato da Jonathan Becker) sonorità nitide e di millimetrica precisione, valorizzando la ricchezza di contrasti insita nella partitura. Del tutto all’altezza della situazione anche i sei interpreti, la cui vocalità è concepita da Glanert – compositore che ha sempre saputo scrivere benissimo per le voci – tenendo conto di precisi equilibri fra i personaggi, usando però tipologie diverse in modo da coprire tutti i registri possibili. È un classico soprano di coloratura la protagonista, Heidi Stober, contrapposta all’Alfonso di Christoph Pohl, baritono dalla voce risonante, ma pure scorrevole. E se il mezzosoprano Lilly Jørstad interpretava un’espressiva Esther, ha dominato la scena una bravissima Tanja Ariane Baumgartner: voce di contralto, perfettamente timbrata anche negli affondi più gravi del suo Sprechgesang. Tornando al versante maschile, il basso-baritono Markus Marquardt è stato un Manrique capace di tener testa al re sul piano vocale; mentre il tenore Aaron Pegram ha ben caratterizzato il personaggio di suo figlio.
Lo spettacolo di Robert Carsen, in collaborazione con Luis F. Carvalho per scene e costumi, assegna a una vicenda del XII secolo una visualità insieme moderna e senza tempo, trasformando il lussureggiante giardino, dove avviene l’incontro tra i due amanti, nelle severe arcate di una moschea. Prevalgono le tonalità del grigio, a cominciare dall’abito di lei e dal talled – lo scialle di preghiera – che lascia cadere: il richiamo più esplicito a un immaginario ebraico. La regia dà poco risalto alla passione erotica e, mentre i due amanti giacciono sotto una coperta giallo-arancio (unica nota di colore dell’intero spettacolo), un fulmineo colpo d’occhio visualizzata tutta la disapprovazione per la colpevole coppia da parte di un prete, un rabbino e un iman, esponenti delle tre religioni coinvolte. Il finale, ad alto contenuto emotivo, crea un cortocircuito col presente e, mentre il vescovo benedice le armi, sullo sfondo scorrono filmati di guerra: allusione a quelle sedici ore di bombardamenti alleati che il devastarono Dresda tra il 13 e 14 febbraio 1945 e, adesso, si confondono con le immagini dei nostri attuali telegiornali. Quando la carneficina è completata, resta in piedi solo il figlio della coppia. Carsen trasforma questo adolescente ritardato in un bambino, ma già futuro adulto in giacca e cravatta. I suoi occhi sgranati di fronte all’orrore rappresentano l’ipoteca più tremenda sul futuro.
Giulia Vannoni