Ormai al giorno d’oggi è completamente inutile arrestare i delinquenti, tanto il giorno dopo sono già in giro, liberi di camminare per la strada.
Oppure.
Poveri poliziotti, faticano duramente per tenere sicure le nostre città e poi il giudice li ostacola, rimettendo subito in libertà le persone che vengono arrestate.
Queste sono solo due delle tantissime frasi che, quotidianamente, sentiamo pronunciare a voce o nell’arena virtuale dei social network. Se ne potrebbero citare tante altre, ma il concetto è sempre lo stesso, ed è chiaro: c’è una percezione diffusa in modo capillare, tra i cittadini di tutto il Paese, secondo la quale, senza giri di parole, la giustizia non funzioni.
L’impressione è che la macchina del procedimento giudiziario, che dovrebbe garantire certezza del diritto, si inceppi proprio nelle sue fasi iniziali, già al momento dell’arresto. Un tema vivo anche nel riminese. Uno degli ultimi casi, infatti, risale alla metà di gennaio: un ragazzo senegalese di 22 anni, colto a vendere marijuana a due diciottenni riminesi al parco Cervi, viene arrestato. Poche ore dopo, però, è già libero, nonostante sia il terzo arresto nel giro di pochi mesi. È davvero così? In Italia c’è davvero un problema in questo senso, o è solo una semplice percezione del cittadino comune? E se lo fosse, da dove nasce? Provano a rispondere a queste domande, cercando di fare chiarezza sugli istituti del procedimento giudiziario, l’avvocato Carlo Beltrambini, che lavora a Rimini dal 1980, e la sua collega, l’avvocato Stefania Lisi (nella foto).
Avvocato Beltrambini, siamo davanti a un problema reale o di percezione?
“Per un’analisi precisa occorre, prima di tutto, guardare i princìpi fondamentali che guidano il nostro processo. Uno di questi afferma che ogni persona è innocente fino a prova contraria. È il principio della presunzione di innocenza: un imputato diventa colpevole solo nel momento in cui viene emessa una sentenza di condanna nei suoi confronti, e solo quando questa passa in giudicato. Spesso nel sentire comune, invece, si ragiona all’opposto: se una persona viene arrestata la si presume colpevole. Fino al momento della sentenza di condanna, ogni uomo è libero e non può essere incarcerato, se non in casi specifici espressamente previsti dalla legge”.
Dottoressa Lisi, quali sono questi casi?
“Sono i casi in cui sussistono le cosiddette «esigenze cautelari», specificamente previste dalla legge all’articolo 274 del Codice di Procedura Penale. Per rispondere a queste esigenze cautelari, la legge prevede delle misure che sono custodiali e coercitive, come appunto la detenzione in carcere. Ma sono dei casi specifici, e solo quando questi sussistono è possibile incarcerare un soggetto che, non essendo ancora stato condannato da una sentenza passata in giudicato, è a tutti gli effetti innocente”.
Quali sono le esigenze cautelari, nello specifico?
“La legge individua le situazioni in cui sussistono gravi indizi di colpevolezza. E questo avviene in relazione a tre ipotesi precise: pericolo di inquinamento delle prove, pericolo di fuga, pericolo di reiterazione di gravi reati o di reati della stessa specie per i quali si sta procedendo. Uno solo di queste tre ipotesi è sufficiente per l’applicazione della misura cautelare. E non solo, ci sono anche altre limitazioni. Per quanto riguarda il pericolo di fuga, ad esempio, deve sussistere un pericolo che non solo sia concreto, ma anche attuale, cioè l’imminenza della fuga. Per cui, i limiti per applicare una misura coercitiva prima della sentenza, come la custodia cautelare in carcere, vengono ulteriormente ristretti. Tale misura va considerata come extrema ratio, da applicare laddove ogni altra appaia inadeguata. È chiaro, dunque, che non è possibile che ad ogni arresto consegua l’incarcerazione, e probabilmente questo è uno dei motivi della percezione che possono avere i cittadini, non specializzati in materia giuridica”.
Solo una percezione errata, dunque? Perché il sentire comune denuncia anche una discordanza tra le pene inflitte e le pene effettivamente scontate.
“Certamente c’è malcontento in questo senso, e cioè sull’effettività delle pene. C’è l’impressione che una data pena, inflitta con la condanna definitiva, poi non venga scontata del tutto. E questo avviene, è vero. Avviene grazie alla presenza degli istituti premiali che, però, ci sono sempre stati in Italia, non sono di certo una creazione recente. Ad esempio, l’istituto della liberazione anticipata, secondo il quale ogni 6 mesi di detenzione vengono scontati, dalla pena totale, 45 giorni. In sostanza, ogni anno passato in carcere dà diritto a uno sconto di pena di 90 giorni, tre mesi. E gli istituti premiali, va detto, hanno senso nel momento in cui il nostro processo è ispirato a un altro principio: quello della funzione rieducativa del carcere, e non inflittiva. Nonostante gli istituti premiali, però, non è vero che è difficile rimanere in carcere in Italia, perché possono crearsi situazioni in cui, una volta detenuto, è molto difficile ritornare in libertà”.
Che genere di situazioni, avvocato Lisi?
“Racconto dei casi specifici, cui ho assistito in prima persona nel mio lavoro. Tempo fa ho difeso un ragazzo di 20 anni, condannato a due anni per un furto aggravato, perché era in presenza di un minorenne e c’era stata violenza sulle cose. Inoltre la condanna arrivava anche alla luce di un precedente che il ragazzo aveva. Viene messo agli arresti domiciliari con braccialetto elettronico ma, mentre è ai domiciliari, evade. A seguito dell’evasione il ragazzo è tornato in carcere, e ora è molto difficile che riesca ad uscire. Due anni di carcere per un furto, di fatto, di lieve entità: 72 euro. E con pochissime possibilità di ridurre la pena. Oppure un altro caso, sempre qui in Romagna, seguito con il collega Beltrambini: una signora è condannata a due anni per bancarotta, i danni sono minimi e la pena viene subito sospesa. La signora, durante il processo, accusa il marito per il reato contestatole: inizia, quindi, un processo a carico del marito. Lei, però, non fa arrivare all’imputato tutte le comunicazioni delle varie fasi del procedimento, non dandogli la possibilità di usufruire di tutte le garanzie che questo prevede. Alla fine viene emessa la condanna a 3 anni. Il condannato, oltre 70 anni di età, lo scopre al momento dell’arresto, e finisce in carcere. Dopo due anni di detenzione, viene trasferito in ospedale per gravi problemi di salute, dove viene vigilato senza sosta da ben quattro agenti di polizia. Un’esagerazione, viste le sue condizioni: dopo pochi giorni, infatti, il detenuto muore. Nonostante il danno quasi inesistente, un anziano è morto da uomo non libero, per non aver potuto usufruire delle garanzie. Le garanzie ci sono, certo. Ma se non si applicano, è del tutto falso che dalla prigione è semplice uscire”.
Dottor Beltrambini, è innegabile però che in Italia, e anche a Rimini, non tutto funzioni alla perfezione…
“Sicuramente, parlando della realtà di Rimini, occorre mettere in luce anche un elemento logistico, ossia di come sono strutturate e organizzate le carceri riminesi”.
In che senso?
“Una città come Rimini deve fare i conti con la propria natura. Perché è una città atipica: ha 100mila abitanti e durante il periodo invernale ha le dinamiche di un piccolo paese, potrebbe essere un quartiere di una grande città. Un paese che però, per tre mesi all’anno, deve accogliere un flusso di persone che raggiunge l’ordine del milione, e anche di più. Aumentano enormemente, quindi, le necessità: le forze dell’ordine, pensate per 100mila abitanti, improvvisamente sono insufficienti, e non sempre i rinforzi sono idonei a rispondere alle esigenze. E chi delinque sa di questa situazione. Così a Rimini, in estate, ogni giorno vengono arrestate una ventina di persone: per forza di cose, anche gli spazi delle carceri sono insufficienti per questi numeri. E anche per questo, quindi, è più facile che si trovino alternative al carcere, questo è senza dubbio vero. Ma è un problema logistico-strutturale, più che di legge o di procedimento giudiziario”.
Simone Santini