Roméo et Juliette di Gounod in scena al Teatro Alighieri di Ravenna con un bellissimo allestimento del regista croato Marin Blažević
RAVENNA, 18 gennaio 2019 – L’amore che unisce Romeo a Giulietta è un sentimento assoluto e totalizzante, che spingerà i due giovani – poco più che adolescenti – ad affrontare la morte come unica soluzione agli ostacoli che li dividono. A dispetto delle tante banalizzazioni che nel tempo ha subito questa potentissima storia resa immortale da Shakespeare (dalle più stucchevoli trovate commerciali a traduzioni operistiche non del tutto in grado di rendere giustizia alla tragica vicenda), i due amanti di Verona incarnano da sempre l’archetipo degli innamorati.
E proprio a questi significati archetipici che sembra far appello il regista croato Marin Blažević (uno dei più talentati della scena odierna) nel suo allestimento di Roméo et Juliette. Fin dall’apertura del sipario la sensazione è quella di assistere a una tragedia greca: subito ci viene mostrata la morte dei due protagonisti, mentre ogni cantante del coro a cappella, con cui si apre l’opera di Gounod, porta una maschera sul volto e indossa pesanti vesti nere (costumi di Sandra Dekanić). La cornice, ultraessenziale, è costituita solo da una gabbia metallica a sostegno di fari luminosi (scene e light design sono di Alan Vukelić) che, entrando in funzione con modalità differenti, riescono a creare effetti di luci e ombre molto suggestivi. Lo spettacolo procede con grande compattezza drammatica, attraverso efficaci soluzioni: dall’idea di far muovere i personaggi come se stessero danzando – quasi ad assecondare gli invisibili fili tesi dal destino – all’introduzione di quelle componenti visionarie (basterebbe pensare a Giulietta che si accoltella alla fine del terzo atto, anticipando la propria fine) che mancano alla musica e sono invece in linea con la tragedia shakespeariana, in un crescendo di temperatura drammatica che poi esploderà in un finale sobrio e stringato, dunque potentissimo.
Non è un caso, del resto, che nel lungo elenco di opere dedicate ai due giovani innamorati, oggi Roméo et Juliette di Gounod sia quasi uscita dal repertorio: il confronto con altri titoli incentrati sullo stesso soggetto non gioca certo a suo favore. Troppa infatti è la distanza rispetto alla sintesi drammatica dei Capuleti e i Montecchi di Bellini e persino dalla meno nota opera di Vaccaj (ma in questi due casi a monte c’era un grande librettista come Romani). Invece le proporzioni mastodontiche (ben cinque atti), oltre ai versi di Jules Barbier e Michel Carré, diluiscono la forza drammatica di personaggi che, nell’insieme, appaiono piuttosto esteriori, provocando l’effetto di uno Shakespeare pericolosamente ridimensionato a “un giro di valzer”. Infatti, la pagina più celebre è proprio il valzer di Juliette del primo atto: un po’ come succede, seppure in misura minore, con Faust, dove in questo caso a farne le spese è Goethe.
Un tempo ad attenuare questi effetti sopperivano grandi interpreti, ormai però introvabili (a Romeo si accostarono Beniamino Gigli e Alfredo Kraus), mentre oggi si tende giustamente a privilegiare la verosimiglianza anagrafica, puntando più sul versante interpretativo. Lo spettacolo arrivato all’Alighieri di Ravenna dopo il debutto di Fiume (si tratta di una coproduzione con il Teatro Nazionale Croato) poteva contare su un cast apprezzabile, dalla soddisfacente resa in palcoscenico, a cominciare dai due protagonisti: il soprano bielorusso Margarita Levchuk, una Juliette assai espressiva nel trasmettere la sua stupita innocenza, e il tenore spagnolo Jesús Álvarez, che ha interpretato Roméo con voce un po’ disomogenea (sonora in alto e rimpicciolita al centro e in basso), ma con l’apprezzabile capacità di saper smorzare i suoni in zona acuta. Corretti tutti gli altri nel disegnare personaggi che la musica spesso trasforma in piccoli e leziosi ritratti, ma che il regista sa caratterizzare molto bene: una menzione speciale va al mezzosoprano Ivana Srbljan (componente della compagnia croata) per l’emissione sicura e una voce sempre timbratissima, nei panni en travesti del paggio Stéphano, di cui la regia si diverte a sottolineare la sensuale androginia. Per quanto riguarda i due baritoni, Michael Wilmering riesce a esprimere bene la spavalda giovinezza di Mercutio sfruttando una vocalità lirico brillante, mentre il basso-baritono Dario Bercich non rende purtroppo al meglio l’arida maturità del padre di Juliette. Un peccato pure che Eugeniy Stanimirov fosse troppo poco timbrato nella zona grave per interpretare Frate Lorenzo, ruolo che in passato fu appannaggio di grandi storici bassi. Marko Fortunato, come Tybalt, ha saputo rendere giustizia al personaggio del ‘secondo tenore’ antagonista, e apprezzabile anche il contralto Sofija Cingula: una Gertrude con le stampelle – conseguenza di un infortunio durante le prove – che la rendono ancora più credibile nel suo ruolo di nutrice, amorevole e solidale con Juliette.
Paolo Olmi ha diretto l’Orchestra del Teatro Nazionale Croato, un insieme solido e ben coeso. Complice forse una certa pesantezza del braccio, il direttore ha privilegiato più gli aspetti drammatici – probabilmente un pregio – che i risvolti leggeri, al limite della frivolezza, legati alle intenzioni di Gounod. Così è apparsa più evidente la sintonia con la lettura di Blažević volta a orientare la bussola dello spettacolo nella direzione della tragedia shakespeariana.
Giulia Vannoni