Se ci si mettesse a parlare con un qualsiasi romagnolo di una certa età su come ci si vestiva all’epoca della sua giovinezza, prima o poi gli verrebbe a mente la famosa “capparella”. Il dizionario “Romagnolo -Italiano”, compilato da Antonio Morri ed edito a Faenza nel 1840, la definisce “mantellina”, mentre dovrebbe chiamarsi ampia mantella o anche mantello a ruota, oppure, tabarro che i dizionari in lingua, (come quello della Garzanti), indicano come “ampio e pesante mantello da uomo da indossare sopra il cappotto, o anche solo su un abito”. In dialetto potrebbe accostarsi al “fraiòl”, gabbana o pastrano senza maniche né tasche esattamente come la capparella.
Storia di una capparella
Nell’antichità i suoi luoghi d’elezione furono quelli della bassa ravennate, densi di boscaglie ed acquitrini, luoghi come Cotignola, Russi, Fusignano, Villanova di Bagnacavallo e Boncellino ove era nato il “Passatore”, che della capparella era padrone. Ma non la portavano solo banditi e grassatori, bensì anche notai, avvocati e medici, maestri e professori che nelle gelide serate invernali, avvolti nel caldo mantello, entravano nella dovuta Osteria contornati da allievi, amici, estimatori, a pontificare di politica e poesia, come Carducci racconta. Ma era nelle piazze, nei giorni del mercato e della fiera, che si vedeva in giro la maggior concentrazione di capparelle. Le portavano mercanti, fattori, mediatori, sensali, e soprattutto contadini. Infatti in campagna “lei” era di casa, anche se in una versione più rudimentale. Qui la stoffa non si comprava ma la facevano le donne al telaio. Non c’era bisogno di maniche, baveri, polsi, asole e bottoni.
Poi, cade in disuso
Ma, pur così bella, indispensabile, signorile ed austera, comoda e di pochissima spesa, anche la magica capparella, dopo secoli di vita, dovette in fretta, quasi d’improvviso scomparire tra il 1950 e il ’60, cedendo alla modernità disarmonica ed indifferente dell’industria e della confezione. Mercati e fiere si adeguarono alla modernità, e rimasero più o meno indenni. La capparella no! Con la dignità che l’era propria uscì di scena andando a morire, non si sa dove, e da allora non se ne parla più.
Eccola ricomparire!
All’inizio dell’inverno 2008, a Savignano sul Rubicone si vide un signore di una certa età attraversare l’ampia piazza Borghesi avvolto in un’ampia capparella, di quelle vere di una volta, anche con il collo di pelle di coniglio. Dopo scoprì che quell’indumento veniva ancora portato da Sergio Ricci, 90 anni, gentile e disponibile a raccontare, a chi lo volesse, del suo amore per quell’indumento, tanto che, nell’armadio di casa sua, di capparelle non ne ha una sola, bensì tre, di tessuto, peso e misura diversi. Il perché del suo incredibile amore, è cucito nel suo passato, nel momento in cui cominciò ad andare a scuola. Dal suo podere, distava circa quattro. Arrivato il freddo, il babbo, non potendo comprargli un cappotto, gli fece indossare la sua vecchia mantellina militare, usata per gli inverni della guerra dal ’15 al ’18. Quella mantellina, di un verde ormai stinto, Sergio la portò per tutti i suoi 6 anni di elementari (allora, nelle scuole di campagna, dopo la quinta, chi era bravo aveva la possibilità di frequentare anche la sesta classe).
Legato all’indumento, anche il ricordo per il nonno, che talvolta gli diceva: “Burdel, ven cun me,’andem ’te circuì!” ch’era quello dei socialisti. Ed il nonno, dal chiodo dov’era appesa prendeva la capparella con cui avvolgeva anche il nipotino, di cui poi si scorgevano solo gli occhi, il naso, ed in fondo le scarpine. “In quella capparella ci si sentiva – racconta – come, oggi, in una calda e morbida termocoperta. Come quasi tutte le capparelle, anche quella aveva al collo la pelliccia, ch’era quella di un coniglio, che molti della campagna allora allevavano”. Una sera, che il nonno l’aveva portato con sé al Circolo, mentre guardavano gli amici fare la partita, nel silenzio del gioco si sentì un rumore e nel contempo si vide un topolino che, dal collo di coniglio era saltato sul tavolo ove si giocava, rimescolandovi così tutte le carte prima di risaltar via scomparendo in qualche buco. Naturalmente i giocatori si arrabbiarono col nonno, anche se l’avvenimento era abbastanza usuale, dal momento che nella campagna queste mantelle eran più o meno tenute tutte appese in uno dei chiodi dietro la porta della stalla, ove i topi eran di casa.
Arriva il cappotto
Sergio continua poi a raccontare che finiti i sei anni “elementari”, quando aveva 12 anni, suo padre decise che, essendo il figlio così bravo a scuola, sarebbe stato più proficuo per tutti non metterlo a lavorare in campagna come contadino, ma mandarlo nel paese ad imparare un mestiere. Capì anche che, lavorando in paese, per l’inverno era bene indossasse un cappotto, e quindi ne comprò uno in un negozio del centro. Come era elegante il ragazzino con addosso quel cappotto lo si vede tuttora da una foto posta nell’ingresso di casa sua. Che fosse poi merito o no del cappotto, fatto sta che Sergio trovò subito lavoro come garzone di bottega in un’elegante barbieria del centro. Diventato grande, arrivò un lavoro più adatto e redditizio, il che gli permise d’indossare ben altri cappotti, anche se di quel suo primo non se ne é mai dimenticato, come non si era mai scordato la capparella del nonno, tanto calda. Anzi, col passare del tempo, non vedendone più nessuna in giro, cominciò a sentirne la mancanza, e a cercarla senza, però, trovarne traccia.
Ci fu poi un’occasione casuale che lo spinse a mettersene alla ricerca. Nell’autunno del 1987, racconta, lui era entrato alla solita ora nel suo solito bar per il solito caffè corretto. Contemporaneamente a lui vi era entrato un altro signore, non del luogo, a chiedere un altro caffè, all’anice questo, dicendo al barista “Mi raccomando, ho una gran fretta, devo correre lungo la Marecchiese a ritirare una capparella, che nel primo pomeriggio devo essere già a Milano… in via della Spiga”. E mentre parlava, bevendo anche il suo caffè all’anice, era già in strada. A Sergio, a sentir solo nominare la capparella, era cominciato a battere il cuore così in fretta che lui, sempre rapido, scattante, disinvolto, non era riuscito neanche a chiedere a quel milanese scappato come una folata di vento, dove stava andando. Da quel momento, fosse a casa, al lavoro, al bar, Sergio non riusciva a pensare ad altro, incerto persino, se quel che aveva sentito dire dal milanese fosse realtà, fantasia o burla. Infine, pragmatico com’era, decise che lui, ogni sabato, avrebbe percorso con la sua macchina tutta la Valle, fermandosi ad ogni negozio, ogni stabilimento di tessuti ed abiti maschili, fino a riuscire a trovare o no questa capparella, diventata ormai una vera “araba fenice”. E poiché era, come da bambino, uomo di carattere, fece come aveva deciso, ed ogni sabato,presa la sua macchina, iniziò le sue ricerche, che tuttavia apparvero più complesse, lunghe e difficili di quanto aveva pensato. A volte gli prendeva lo sconforto, ed allora decideva di abbandonare l’impresa. Ma poi, il sabato mattina, era già salito in macchina pieno di nuova speranza. Ed infatti, finalmente, come accade in tutte le favole tradizionali “cammina e cammina si scorse lontano lontano, immerso tra gli alberi, un lumicino”, ove poi dall’ insegna si capì che era un negozio di biancheria per uso domestico, da tavola e da letto. Nonostante l’importanza dei tessuti e la bellezza dei ricami, nulla di ciò poteva interessare Sergio. E, tuttavia, senza esitazione vi entrò ugualmente e non guardando neppure il commesso né chiedendogli permesso continuò ad avanzare all’interno del negozio che, pur essendo così ampio nell’entrata, si restringeva, poi, diventando lungo e stretto, senza finestre, ma zeppo di panni ed abiti di tipo diverso ma tutti maschili: pantaloni, jeans, giacche, vestiti eleganti, sportivi, e poi giacche da caccia, le romagnole “sacone”, ampie e piene di tasche ove ci si poteva mettere qualche piccolo animale appena cacciato. Continuando, di colpo il negozio si allargava di nuovo così com’era all’entrata, e lì vi si vedevano, nei loro attaccapanni, impermeabili, cappotti, e, vista d’improvviso ecco apparirgli di colpo una capparella, una soltanto in mezzo a un’infinita serie di abiti più o meno uguali tra loro. E lì, vedendo quell’indumento, così simile a quello antico portato dal nonno, a Sergio dagli occhi scesero due lacrime.
Missione compiuta
Così l’incredibile impresa era finita e Sergio finalmente poteva comprarsi la sua prima capparella, cui se ne aggiunsero, poi, altre due, come si vede tuttora aprendo l’armadio di casa sua. Ci sarebbe, però, ancora da chiedersi come mai quel particolare negozio lungo il Marecchia ha ancora oggi “l’audacia” di vendere quelle capparelle, per il resto introvabili in tutta la Romagna? Ma questa è un’altra storia da raccontare, se Sergio ha ancor voglia di parlarcene, un’altra volta, lui sicuramente lo saprà.
Grazia Bravetti Magnoni