Dedicato a Dvořák il prezioso concerto del Ravenna Festival diretto da Riccardo Muti con Tamás Varga ottimo solista al violoncello
RAVENNA, 12 luglio 2020 – Ascoltare in successione due brani di Dvořák permette di percepire più facilmente quella fitta trama di legami musicali, e rimandi geografici, che sottendono. L’abbinamento, poi, non fa che accrescerne il fascino.
Troppo spesso la Nona sinfonia “Dal nuovo mondo” viene proposta come se i riferimenti all’America implicassero l’esibizione di tensioni un po’ muscolari da parte di esecutori e direttore, o ammiccamenti fin troppo espliciti agli aspetti folclorici ora boemi ora statunitensi. Allo stesso modo, il Secondo concerto per violoncello corre il rischio di trasformarsi in uno sfoggio eccessivamente spettacolare delle abilità solistiche. Interpretazioni, in entrambi i casi, che fanno perdere di vista il significato più profondo della raffinata orchestrazione di Dvořák.
Nella serata del Ravenna Festival, che ha avuto per protagonista Riccardo Muti e la sua Orchestra Giovanile Luigi Cherubini e come ospite il violoncellista Tamás Varga, si respirava tutt’altra atmosfera, nonostante lo spazio all’aperto della Rocca Brancaleone, con la sua acustica inevitabilmente dispersiva, potesse invogliare a enfatizzare effetti facili e spessori fonici eccessivi.
Il primo a sottrarsi a questo rischio è stato proprio Varga, cinquantunenne ungherese che nel magnifico Secondo concerto (1895), ha saputo affrontare il ruolo solistico con estrema sobrietà e consapevolezza della dialettica orchestrale, soprattutto in termini di volumi (a questo strumentista certo ha giovato la militanza ventennale come primo violoncello dei Wiener Philharmoniker, così come l’assidua frequentazione del repertorio novecentesco): nessun cedimento all’istrionismo gratuito, a vantaggio di un’adamantina precisione – ottenuta grazie a una tecnica sorvegliatissima – e di una ragguardevole incisività sonora. Al termine dell’esecuzione Varga ha anche concesso un bis, la Ballade von Gelb: brano composto due anni fa dal proprio figlio quattordicenne, che (seduto in mezzo al pubblico) seguiva con sguardo timido, e al tempo stesso lusingato, l’esibizione del padre.
Senza interruzioni – nel rispetto delle attuali norme non sono più previsti intervalli – si è passati alla Sinfonia, scritta da Dvořák nel 1893, quando si recò per la seconda volta in America. La caleidoscopica lettura di Muti ha valorizzato il rincorrersi dei temi legati al folclore slavo e a quelli provenienti dal Nuovo mondo, esaltandone l’intreccio inestricabile e affascinante: espressione della maestria con cui il compositore boemo sapeva rielaborare il materiale tematico, filtrandolo attraverso il sinfonismo tardo romantico. Muti ne ha poi ben messo a fuoco la varietà ritmica e la ricchezza dei colori, disegnando atmosfere sempre cangianti e dagli effetti mai scontati. D’intensa poesia il ‘largo’, che sembrava quasi di ascoltare per la prima volta.
Ma se direttore e solista potevano far presagire il meglio, non altrettanto scontata appariva la risposta dell’orchestra, chiamata a una prova molto impegnativa: i giovani della Cherubini, con legni di particolare bravura, hanno invece assecondato i desiderata del loro Maestro con estrema duttilità e sicurezza. Peccato che le orchestre giovanili siano soggette a un inevitabile turnover, perché l’attuale formazione rappresenterebbe l’ideale.
Giulia Vannoni