Fiori d’arancio sempre più fragili. Basta un dato per capire quanto il matrimonio sia in crisi, anche nel territorio riminese: negli ultimi dieci anni, in provincia, il numero dei divorziati e separati legalmente è più che raddoppiato, passando da 3.621 a 8.548 persone (Istat). In rapporto alla popolazione, si parla di un salto dall’1,3 al 2,7 per cento. Sempre nel Riminese, si divorzia ad un’età media di 43,6 anni per gli uomini e di 40 per le donne. La durata media dei matrimoni conclusi è di 15 anni anche se, come ha già sottolineato di recente in queste pagine l’avvocato matrimonialista riminese Salvatore Di Grazia, sono in crescita i casi di separazioni legali a pochi anni dal pronunciamento del sì.
Ci si potrebbe limitare ad allargare le braccia e pensare che “tanto, oggi, è una cosa normale…”. Eppure, come sottolinea la dottoressa Vittoria Maioli Sanese, psicoterapeuta della coppia e della famiglia e direttrice del Consultorio Ucipem, un divorzio non è mai indolore, anche in quelle situazioni in cui ci si lascia senza rabbia o rancore.
Dottoressa, che segno lascia la fine di un matrimonio?
“Un senso di fallimento e un livello di sofferenza molto alti. Si tende ad associare questa sofferenza al livello di conflittualità della coppia, pensando che se ci si separa con civiltà, il dolore non ci sia. Non è vero, né per i genitori né per i figli. C’è sempre un senso di inadeguatezza, di fallimento, ma soprattutto, non esistono ancora strumenti adeguati per affrontare queste problematiche”.
In che senso?
“Porto un esempio: come si può accompagnare efficacemente un ragazzo che vive la separazione dei genitori? Il nostro consultorio ha attivato dei gruppi per bambini dai 6 anni in su, che si trovano in questa situazione. Ma in questo ambito, come in altri, la ricerca degli strumenti psicoterapeutici è in continua evoluzione”.
Lei ha parlato di ragazzi dai 6 anni in su. Se i figli hanno un’età inferiore, soffriranno di meno?
“Occorre distinguere tra il dolore e il danno psicologico. Il dolore in sé non è mai un danno: è anzi un sentimento, che richiede partecipazione. Il bambino di 2-3 anni soffre meno perché ha una minore consapevolezza, ma subirà, rispetto al bambino più grande, un maggior danno psicologico. Fin da piccolissimo, il figlio porta dentro di sé l’immagine di un padre e di una madre, e non solo per ciò che vede all’esterno. La separazione dei genitori genera in lui un sentimento di precarietà, instabilità affettiva. Il bambino cresce pensando di poter contare solo su di sé”.
Come diminuire, al tempo stesso, sia la sofferenza che il danno psicologico?
“I genitori devono poter sottrarre il loro essere padre e madre al disastro sentimentale, al rancore e alla rabbia verso l’ex marito o l’ex moglie. Anche se l’altro genitore può non essere un modello di vita, occorre spiegare al figlio che va comunque onorato. Onora il padre e la madre, non a caso è uno dei dieci comandamenti: vuol dire insegnare ai figli il rispetto per la vita che è stata loro donata”.
L’altro errore è quello di usare i figli come arma di ricatto verso l’ex coniuge…
“Sì, ma oggi i genitori tendono ad essere più attenti sotto questo aspetto, più culturalizzati. Assistiamo semmai ad altri comportamenti devastanti, come quando il padre presenta ogni due mesi al figlio la nuova fidanzata, rivendicando il diritto del figlio di conoscere la sua nuova vita. In questi casi finisce per trasmettergli un senso di insicurezza totale e per perdere la sua stima. Ma si può danneggiare il figlio anche accontentandolo in tutte le richieste «perché ormai ha già sofferto abbastanza». Un errore in cui cadono anche molti nonni”.
Oggi secondo lei è più facile dire basta?
“Il «per sempre» è entrato nella sfera delle emozioni. Il desiderio fa parte della scenografia del sentimento, ma la condivisione è un’altra cosa: sapere che questo desiderio avrà una scadenza. Le altre questioni sono: perché dopo tre, quattro anni quel rapporto non assomiglia per niente a quello che era in origine? Perché la nascita di un figlio devasta completamente la coppia? Sono domande che ne implicano una di fondo: come consideriamo oggi la fatica? Se amarti, in questo momento, mi comporta fatica, allora non ha più senso amarti… È un atteggiamento che non riguarda, oggi, solo l’amore ma anche altri aspetti della vita, che ci porta ad una nuova sfida educativa”.
Alessandra Leardini