“Stiamo diventando una società sempre più selettiva nei confronti del “diverso”? E, in riferimento agli esami di diagnosi prenatale, in crescita anche a Rimini e sempre più praticati da donne giovani, si può parlare di “sindrome dell’uomo perfetto”? Dopo la nostra inchiesta sugli aborti di feti con sindrome di Down (21 negli ultimi tre anni all’ospedale “Infermi”) il sociologo Pierpaolo Parma ci ha fatto avere una sua riflessione che pubblichiamo di seguito.
“Non so quali siano state le ragioni che possono aver condotto le 21 coppie a ritenere che la soppressione del loro bambino (dichiarato portatore della sindrome di Down) fosse la decisione giusta. E, certamente, è impossibile, per chi non si è mai trovato in quella difficile condizione, conoscere la tempesta di sentimenti e angosce (ed anche la paura dello stigma sociale) che si è scatenata nei loro cuori e nelle loro menti.
Da osservatori esterni, è possibile soltanto cercare di collocare il fatto all’interno di un quadro interpretativo che faccia riferimento ai due elementi su cui si fonda un sistema sociale: le condizioni strutturali in cui oggi si trovano le famiglie e il tipo di cultura da cui molte persone traggono i valori ed i significati che orientano le loro azioni e scelte di vita.
Sul primo aspetto, credo che la struttura pubblica abbia fatto notevoli progressi nel predisporre una efficace rete organizzativa per far fronte alle diverse esigenze che nascono dal fenomeno dell’handicap. Ma questo processo di istituzionalizzazione del problema (che, come molti ricorderanno, don Oreste ha sempre duramente criticato) non sembra efficace nel suo proposito di orientare le coppie verso una scelta di accoglienza. Evidentemente c’è qualcosa che manca o non convince fino in fondo nell’apparato pubblico. Perché, in ultima analisi, credo che quello che veramente conta quando ci si trova di fronte a dei momenti di rottura e si devono prendere decisioni importanti, sono le reti parentali ed amicali e non le istituzioni. Sono le relazioni con le persone significative, quelle che ci conoscono veramente, da cui traiamo stima e riconoscimento e a cui si possono confidare i nostri progetti, le nostre speranze e le nostre paure. Ebbene, oggi queste reti si sono drasticamente impoverite, le famiglie sono sempre più socialmente isolate e prive di ambiti stabili di riferimento esistenziale (i cosiddetti mondi vitali). La conseguenza è che le loro scelte di vita sono quasi esclusivamente determinate (spesso in maniera del tutto acritica) da una cultura i cui tratti tipici non vanno certamente nella direzione dell’accoglienza del diverso. A questo punto entra in scena il secondo dei due fattori indicati sopra. Per dirla in breve, a mio parere la decisione di sopprimere un feto malformato è soprattutto figlia di una concezione economica dell’uomo, di un modello antropologico così diffuso da sembrare un fatto del tutto ovvio. Questo modello richiede che si applichi all’uomo lo stesso tipo di valutazione che si applica ai prodotti industriali. Non solo quelli difettosi si debbono scartare ma la produzione deve tendere costantemente a migliorarne la qualità (bellezza, intelligenza, forza fisica, ecc.). Perché l’uomo-prodotto non ha un valore in sé ma in funzione della sua capacità di soddisfare le esigenze di <+cors>benessere<+testo_band> dell’acquirente. Questa è la ferrea logica del mercato (e dei suoi due corollari, la competizione e l’efficienza) e queste, in fondo, sono le conseguenze del prevalere dell’homo oeconomicus sull’homo sapiens.