Le storie non cominciano mai da dove partono le narrazioni dei fatti. C’è sempre un retroscena che gli scrittori rivelano soltanto nel corso del racconto, e che il lettore deve poi individuare come fatto scatenante di tutti gli altri eventi.
In un recente volume postumo di Paolo Rossi, storico della Scienza e della Filosofia scomparso a gennaio, si legge la sua vicenda personale di quanto accadutogli tra 1943 e 1944. Non si era presentato alla chiamata alle armi tra i repubblichini nel novembre 1943. Non si era fatto condizionare dal decreto del febbraio 1944 che introduceva la pena di morte per renitenti alla leva e disertori. “I locali carabinieri sembravano non manifestare alcun interesse per la ricerca dei renitenti alla leva e la vita era abbastanza tranquilla” (p. 52).
La falsa tranquillità
La fucilazione di alcuni ragazzi fa scomparire quella “falsa tranquillità”. Alla fine del marzo 1944 il padre di Paolo Rossi è “direttamente e rudemente minacciato perché aveva un figlio renitente alla leva”. Quel figlio si presenta poi al Distretto Militare di Perugia con in testa l’idea di tagliare la corda alla prima occasione. Alla sua testa, intanto, mira un commilitone con uno sgabello di metallo, tentando di ucciderlo, non lo colpisce al capo, ma gli procura una brutta ferita ad una gamba. Rossi si nasconde in casa di un medico che lo cura sino al 20 giugno, giorno della liberazione di Perugia.
Le pagine di Paolo Rossi, s’intitolano Un viaggio e altre storie. Le guerre, gli uomini, la memoria. Esse s’ispirano ad un principio bene spiegato nella prefazione di Stefano Poggi: al passato “non siamo mai indifferenti”, soprattutto perché si cerca “di riscriverlo, di rimuoverlo, addirittura di cancellarlo, perché in quello specchio non vogliamo contemplarci”.
Quando ho letto queste parole, ho pensato alle storie locali di Rimini; alle tre uccisioni del 1944, compiute dai soldati di Salò, e rimaste dimenticate per ammissione degli stessi repubblichini; ed alla successiva, antica scomparsa dalla nostra Biblioteca Civica Gambalunga dei primi due numeri del “Garibaldino”, organo dei partigiani, dove forse si trovavano cronache imbarazzanti per personaggi noti passati sull’altra sponda, da neri a rossi, come si diceva allora.
Non tutto ciò che è accaduto è raccontato. Non tutte le narrazioni sono fedeli ai fatti. Paolo Rossi riprende da Renzo De Felice una frase di “inusitata chiarezza” (pp. 48-49): molti passarono dal fascismo all’antifascismo con una naturalità che significava sostenere la stessa visione del mondo da realizzare prima attraverso il fascismo e poi attraverso l’antifascismo.
“Fascisti e fraterni saluti”
A queste cose si pensa e si ripensa guardando le vecchie foto di casa. Quella di un mio zio paterno morto in Africa, che inviava “fascisti e fraterni saluti” a mio padre, con quel primo aggettivo mi ha gelato quando di recente l’ho rivista. Oppure quando si legge un volume interessante come quello che Rodolfo Francesconi ha composto, partendo dalla fine della vita di suo padre Demetrio, dopo aver ritrovato sotto il suo letto un vecchio baule che la madre definisce pieno di cartacce, molte delle quali ha già buttato via quando il marito era ricoverato in ospedale.
L’antefatto è riassunto nel titolo del lavoro, Cartografie di una vita da un baule di cartacce (ed. Raffaelli). La storia del contenuto di questo baule comincia da una lettera che il padre Demetrio ha scritto in Africa per il figlio Dolfo nel marzo 1938. Ma l’antefatto, il vero punto di partenza della vicenda di Demetrio Francesconi, è in quel 30 novembre 1920 quando a 18 anni egli si iscrive al fascio di Bologna: “Non sono mai stato un violento ed un fazioso, solo avevo abbracciato un’idea che allora entusiasmava la gioventù. Ecco tutto!”.
Dolfo, quando suo padre partì, aveva tra gli otto e i nove anni, come confida lui stesso in una breve introduzione, dove racconta di aver aggiunto alle pagine del babbo ritrovate nel baule, “altre carte per rendersi conto dello spirito del tempo” in cui egli aveva vissuto la vita. Il Dolfo scrittore di oggi chiama quella vita “un baule di cartacce”. Ricalca le parole della madre, con un spirito dissacratorio ma non irriverente, preso come spunto per adottare nel titolo quell’altisonante “cartografie”. Non è un bizzarro termine tecnico, ma l’esatto ricorso ad un’immagine che riassume una concezione della Storia e delle storie individuali: “Cartografie di una vita”, appunto.
Lo storico Karl Schlögel (in Leggere il tempo nello spazio, 2003, p. 165) ha scritto che “la vita accade nello spazio e nel tempo” e che nelle biografie “si mescola tutto, l’individuale e il generale, l’umano e la miseria del personaggio, lo spirito del tempo ed il temperamento personale, la tendenza e il caso, ma nemmeno sempre”.
Demetrio e Dolfo
L’idea cartografica di Rodolfo Francesconi è così un ottimo punto di partenza per costruire una memoria del tempo attraverso l’autobiografia confidenziale di suo padre. La quale parte non dal momento in cui compone il racconto o dall’iscrizione al fascio bolognese nel 1920, ma da un altro antefatto di famiglia, le nozze della sorella Gina con un ingegnere navale di vent’anni più anziano di lei e trentacinque più del fratello Demetrio, il padre di Dolfo: “Ti renderai conto, se e quando leggerai queste mie note, come lo zio fosse diventato per me un reale punto di riferimento, e potrai immaginare i progetti e i sacrifici compiuti dai miei genitori per far sì che io potessi studiare e intraprendere poi gli studi universitari, anch’io da ingegnere, come mio cognato”.
Demetrio, rimasto orfano di padre al primo anno di università, conduce una vita sacrificatissima in quella Bologna che “era allora la vera capitale della cultura universitaria in Italia”.
Come sottolinea il prof. Ennio Grassi nella postfazione, la risposta del figlio Dolfo al padre che, funzionario dello Stato, è vissuto a lungo all’estero, prima in Etiopia e poi in Albania (dove è stato arrestato dai comunisti di Enver Hoxa con l’accusa di aver occultato bagagli militari), la riposta di Dolfo è su due piani: “l’addebito crudo e inappellabile di una responsabilità morale, per la propria parte, nella vicenda del fascismo”, ed “anche il riconoscimento di una onestà intellettuale di fondo, di un senso del dovere che ha prevalso sulla fede politica”.
La mappa che Demetrio e Dolfo lasciano in custodia al lettore, segna percorsi non soltanto individuali. Il padre ricorda al figlio un articolo di Curzio Malaparte pubblicato nel Corriere della Sera il primo agosto 1938, sui romagnoli che conquistano un pezzo d’Africa: “era molto idilliaco e lontano dalla realtà”.
La conclusione di Rodolfo Francesconi, sotto forma di lettera (datata maggio 1980), contiene risvolti di vicende personali che qui non vogliamo riassumere, per limitarci al significato della storia collettiva del nostro Paese, in cui esse sono calate. E questa mappa dell’Italia del Ventennio può avere come sottotitolo la conclusione del libro, che ne è anche la chiave di lettura: “Solo adesso, dopo l’apertura del baule, ho iniziato a capire”.
Nel 1991 con Conservazione di una storia Francesconi propose una vicenda sconosciuta e drammatica, nella Val Marecchia della primavera 1944. Un ragazzo di 12 anni s’avvicina nella piazza del paese agli autocarri nazisti carichi di morti e di feriti. Un soldato si sporge dal camion, con una mano tende una borraccia e con voce lamentosa chiede acqua. Il ragazzo afferra la borraccia, corre alla fontana, il veicolo si avvia. Un altro braccio si sporge dal camion, agguanta per i polsi il fanciullo, lo issa sull’automezzo, sotto gli occhi del padre e della madre. Invano il ragazzo tenta di liberarsi. Il suo destino è segnato da quella borraccia. Non ritornerà più a casa, “scambiato probabilmente per una staffetta partigiana o comunque uno scampato a una strage e perciò nemico e da trattenere…”. Il suo il nome, concludeva la storia, figura in due elenchi: quello di un carico arrivato ad Auschwitz e, quello più terribile, di un gruppo di prigionieri avviati alla camera a gas.
Antonio Montanari